Sabato, poco prima della partenza del Trail del Campo dei Fiori, tra varie canzoni rock, spunta fuori un pezzo dei Prodigy: esatto, quel gruppo techno/hardcore/big beat/elettronico che nel 1997 fece uscire dal circuito undergroung e dei rave party, quella musica apparentemente per fattoni. "The Fat Of The Land" fu un album epocale, un tassello in più rispetto al precedente (e pur pregevole) "Music For The Jilted Generation" - lavoro probabilmente più spontaneo, più vicino a quella nicchia di musica "da ballare" sotto effetti (spesso) di alcune sostanze - e senza dubbio quello più ascoltabile anche dai non esperti del settore. Ed è un album da far saltare la testa, e le gambe.
Si apre con uno dei successi del gruppo, "Smack My Bitch Up", ritmo che parte da subito alto, incessante, suoni che si rincorrono, voce ossessiva, e un intermezzo orientaleggiante: la perfetta summa dei nuovi Prodigy, o per meglio dire, del nuovo lavoro di Liam Howlett, la vera mente musicale del gruppo. Nella successiva "Breathe" si può notare il taglio techno/rock del nuovo sound, grazie al sottofondo pulsante del basso e la chitarra, con la voce roca del frontman Keith Flint (dall'acconciatura punk e dalle movenza da psicopatico).
"Diesel Power" ha un'andatura più funky, quindi un po' più lenta, col cantato rap di Maxim, l'altro frontman, più pacato, ma dalla presenza non meno inquietante. "Funky Shit" sembra dal titolo voler marcare distanza dai ritmi precedenti, difatti si staglia come un classico pezzo techno/beat, più vicino alla musica da rave, di certo adatta per far crescere il fiatone. Su un quasi-riff di chitarra si basa "Serial Thrilla", andamento costante, senza sosta, così come "Mindfields" aperta su una specie di arpeggio di poche note e un ritmo che cambia e si muove incessantemente.
La lunga "Narayan" (9 minuti) si presenta come un nuovo incrocio tra ritmi techno e melodia, spunti vagamente rock, e pura elettronica: qualcuno disse (e dice ancora) che l'album era (è) commerciale, semplice, ma a me non sembra per nulla facile e scontato costruire un pezzo così. Si arriva quindi a quello che probabilmente è il capolavoro del quartetto inglese (sì, erano in 4, c'era anche Leeroy Thornhill, nella funzione di ballerino), ovvero "Firestarter", aperta da una chitarra elettronica (vera, suonata da Jim Davies), e tenuta insieme da ritmi potenti e suoni inquietanti, e la solita voce punky di Keith Flint. "Climbatize" si apre con tastiere epiche, e poi ancora electro-rock con ritmi tribali a tenere alta la cadenza. Il finale è per il techno/hardcore/electro/rock di "Fuel My Fire", pezzo che avrebbe potuto fare anche un buon gruppo punk, ritmi tiratissimi per un finale tutta potenza.
Un lavoro che sdoganò quei suoni e quei ritmi, dandoli in pasto alla massa, ma anche a chi non conosceva quella realtà e la possibilità di aver un buon prodotto musicale con l'utilizzo della sola elettronica e con il solo intento di far saltare l'ascoltatore.
ARTICOLO A CURA DI:
Nessun commento:
Posta un commento