Lunedì 21 Novembre Io e Stefano Ruzza siamo stati ospiti a una serata formativa organizzata dallo studio medico e di fisiochinesiterapia "Kinesis". Gli interventi preparati "L'atleta-figlio: molte speranze, poca relazione" e "Professionisti, semi-professionisti, amatori: come essere professionali, dividendosi con il proprio lavoro" hanno suscitato interesse e una buona partecipazione da parte del pubblico. Molte sono state le domande, le esperienze personali e i punti di vista raccontati. Il clima è stato sempre positivo e costruttivo e per me è stata una serata estremamente arricchente.
La riflessione che ho sviluppato durante la serata è ruotata intorno alla mia convinzione che, ad oggi, sia presente un eccessivo bisogno di successo e di realizzazione personale e che questo implichi dei rischi all'interno della relazione genitore-figlio, soprattutto in ambito sportivo.
In una società dove il successo, l'ottenimento dell'altrui apprezzamento, il benessere economico sono travi portanti della soddisfazione personale, i figli rischiano di diventare la possibilità che molti genitori sentono di non aver realmente potuto godere. Non sono riuscito a diventare un campione di calcio osannato da milioni di tifosi? Non ho avuto l'occasione di essere fotografato e di apparire su copertine di giornali e in televisione? Di guadagnare a sufficienza per soddisfare ogni mio sfizio? Bene, mio figlio lo farà per me. A livello psicologico, in questo caso, si parla di proiezione narcisistica, ovvero si rende il figlio una sorta di lavagna luminosa sul quale proiettare i propri desideri, le proprie paure e più in generale i propri conflitti.
Credo sia evidente comprendere come in questo caso il figlio perda l'essenza stessa di figlio, di persona, e assuma il valore di un investimento, di un oggetto sul quale riporre le proprie speranze. Quello di cui parlo ora è un caso limite. Credo però questo fenomeno, in tono minore, sia parte di molti di noi.
Chi nella vita non ha sognato di entrare a far parte dell'elite sportiva? Pochi. Quasi tutti hanno cullato questo sogno nella vita. Quanti ci sono riusciti? Quasi nessuno. La vita può essere avara e non sempre ripaga i nostri sforzi. La frustrazione che ne deriva non è però del tutto negativa e può permetterci di comprendere i nostri limiti, di scoprirli e, se disponibili, anche accettarli ed apprezzarli.
Il benessere e il vero amor proprio, il sapere amare se stessi, passa da questa strada e non prevede scorciatoie. Se una persona si vuole bene deve accettare i propri limiti e le proprie debolezze, sapendo che non sarà mai ciò che non può essere. Questo non significa che non possa impegnarsi e migliorare, ma sa anche che non potrà diventare ciò che non è.
Quello che la maggior parte di noi sportivi non è sicuramente un campione. Siamo uomini normali che praticano una disciplina sportiva. Possiamo scegliere di farla con impegno, al massimo delle proprie possibilità o anche solo per svago, ognuno con i propri obiettivi. Capire i nostri limiti, e accettarli, ci permette di godere a pieno di quanto facciamo e tutela i nostri figli di desideri insoddisfatti che difficilmente potranno realizzare per noi. I figli saranno ciò che potranno e ciò che vorranno essere. Noi siamo quello che siamo stati e ciò che siamo ora, ma nulla di più.
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