È nelle sale cinematografiche in questi giorni il documentario di Andrew Dominik, “One More Time With Feeling”, incentrato su Nick Cave e la lavorazione dell’album “Skeleton Tree”, fortemente influenzato dalla tragica scomparsa del figlio 15nne nel luglio 2015. Ero intenzionato a proporre questo suo lavoro, intenso, profondo, bellissimo, ma forse un po’ troppo “pesante” da ascoltare durante un’attività fisica. Quindi, tra i tantissimi capolavori della incredibile e camaleontica carriera del grande cantautore australiano, opto per “Murder’s Ballad”, sorta di summa tra il proto-punk anni ’80, ossessivo, ossessionato, drammatico, e la successiva tappa più melodica, fatta di canzoni malinconiche che hanno caratterizzato i suoi anni 2000. C’è violenza, tantissima violenza in questo con album del 1996 che racconta di omicidi, killer psicopatici e tragiche e morbose storie d’amore finite tragicamente, ma anche melodia, creando ossimori dal fortissimo impatto. Insomma, non si salta a ballare, ma l’incedere è continuo, adatto per accompagnare ritmi medi.
Si inizia con “Song of Joy”, la voce baritonale di Nick Cave quasi a recitare questo racconto gotico, sopra le note disegnate qua e là dai BadSeeds, con in testa il magistrale Mick Harvey a punteggiare con il pianoforte. “Stagger Lee” è una ballata più intensa, dall’incedere vocale di Cave quasi rap, condita da suoni di pistola, chitarra graffiante di Blixa Bargeld e nel finale un pazzesco suono di violino di Warren Ellis (geniaccio folle, compagno fraterno di musica di Nick Cave negli ultimi 15 anni), capace di simulare un urlo davvero agghiacciante.
Una melodia dolce in duetto con la compagna di allora PJ Harvey è la protagonista della lenta e strappalacrime “Henry Lee” (dove è la donna stavolta a trasformarsi in carnefice). Toni un po’ più veloci con la batteria pulsante di Thomas Wydler a dar vita al racconto di “Lovely Creature”, su atmosfere ancora gotiche, tra tenebre e venti inquietanti. E poi arriva “Where the Wild Roses Grow”, dove un’incredibile Kylie Minogue (esatto, proprio lei, quella del fondoschiena divino e dei tormentoni da discoteca di inizio 2000) duetta col suo omicida Nick Cave in questo incedere valzer dai bellissimi archi a creare un’atmosfera magica.
Folle, grottesca, quasi un divertissement di killer psicopatici, “The Course of Millhaven” riporta un po’ di velocità. Altra ballata tremenda e tragica è “The Kindness of Strangers”, con la voce di Cave quasi spezzata dal pianto nel racconto dell’ennesima morte violenta. Un blues/jazz sbilenco (coi soliti grandi Bad Seeds) è “Crow Jane”, che ricorda non troppo vagamente il vecchio Cave anni ‘80.
Quasi alla fine, i 14 interminabili minuti di “O’Malley’s Bar”, altro blues sgangherato, dove il nostro si lascia andare al racconto di 12 storie di pazzi e killer vari, con i Bad Seeds a non perdere un colpo: lunga, certamente, ma favolosa, che potrebbe durare in eterno. E si chiude con la ballata gospel di “The Death is not the End”, cover di una canzone di Bob Dylan, dall’andamento vagamente sognante, o forse da incubo, falsamente speranzosa.
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