Vincenzo Prunelli è medico, psichiatra e psicanalista.
Socio onorario dell'Associazione Italiana di Psicologia dello Sport e direttore responsabile de "Il Giornale Italiano di Psicologia dello Sport".
Vincenzo Prunelli ha lavorato, negli anni, come psicologo dello sport presso il Torino Calcio, alla Federazione Italiana Giuoco Calcio, per le Nazionali Giovanili e alla Robe di Kappa basket.
Autore di numerosi libri è ideatore e curatore dell'Associazione e del progetto Nuovosportgiovani, che vi suggeriamo di scoprire attraverso il collegamento.
Ti
posso chiedere di spiegare il significato di psicologia sportiva a
una persona non del settore?
La
psicologia sportiva, per come la intendo, è un fantastico
fenomeno educativo che richiede, però, alcuni cambiamenti interni
alla cultura dello sport, altrimenti non si possono utilizzare a
pieno le sue potenzialità.
Come
potrei spiegare cos'è la psicologia dello sport? Innanzitutto direi
che è strettamente legata all'età di chi fa sport e in tal senso
può venir divisa in tre fasi.
Uno
dei compiti principali insiti nella prima fase è fare in modo che
gli allenatori capiscano quali sono i tempi di sviluppo di un bambino
e quali i tempi di apprendimento, in modo tale da non commettere
degli errori. Il bambino, ad esempio, non possiede il pensiero
astratto, e quindi è inutile parlargli del domani, dei sacrifici o
del successo nella vita. E poiché il gioco, il piacere e l’interesse
sono gli stimoli fondamentali, l’istruttore preparato deve riuscire
ad associare l'apprendimento al divertimento.
In
tempi passati, collaborando con Sergio Vatta, un tipo eccezionale,
abbiamo inventato i “Primi Calci” al Torino. Riuscivamo a
insegnare calcio apprendendo anche dai bambini stessi. Se notavamo
qualcosa di diverso dal solito, non per forza creativo, ma anche solo
diverso, lo mostravamo agli altri bambini, che cercavano di imitarlo.
E, imitandolo, facevano anche qualcosa di diverso da quello che erano
soliti fare, perché da questo bambino avevano la possibilità di
imparare.
Insegnavamo
anche il gesto tecnico, ma a modo nostro. Per esempio, per insegnare
a calciare d'esterno creavamo a terra un cerchio con una corda e il
bambino, arrivando di corsa, doveva toccare la palla d'esterno
facendola finire al centro. Anche il solo toccarla d'esterno
insegnava il gesto tecnico e permetteva ai bambini di imparare a
regolare la forza che andava impressa alla palla.
Altro
aspetto importante è insegnare agli allenatori a fare divertire i
bambini. Se riesci in questo compito, ti si aprono molte porte. Pensa
che, al Torino, siamo riusciti a fare stare 650 bambini in due campi
da calcio, senza che si disturbassero. Questo è stato possibile
perché gli allenatori, tutti con una qualifica Isef, nel farli
giocare s’interessavano a farli divertire.
Vedo
invece la specializzazione precoce come il fumo negli occhi. Questa
significa comunicare ai bambini di fare in un dato modo, ma non il
loro. Il talento in questo modo viene soffocato, perché deve
rinunciare alla propria soluzione: rallenta l’azione e l’iniziativa
per costruirsi uno schema non suggerito dalla situazione e, di
conseguenza, non può usare l’ingegno.
La
seconda fase parte dai 10/12 anni, e consiste nel poter iniziare a
insegnare anche con spiegazioni e trasmissione di concetti, e quindi
anche senza passare attraverso il gioco. È comparsa la capacità di
pensiero astratto, e si possono lasciar assumere iniziative non
comandate, e quindi permettere che possano sbagliare. Questa è la
fase in cui s’inizia a dare dei compiti e delle indicazioni e, in
un certo modo, a specializzarli. In questa fase, se un bambino non
sbaglia, è perché non tenta mai nulla di nuovo. E qui s’inserisce
il discorso sull'intelligenza, che è composta di almeno tre livelli
di funzioni. Il primo è l'apprendimento passivo, il secondo la
critica e il terzo la creatività e l’ingegno, nel quale non si
esegue solo un comando, ma delle informazioni che si hanno a
disposizione si fa ciò che si ritiene più opportuno.
Il
compito dello psicologo consiste quindi nel fornire nuove conoscenze
per correggere errori che gli allenatori possono commettere e
suggerire le soluzioni più adatte a ogni età e a ogni allievo. Per
esempio, capire perché un bambino compie una determinata azione,
quali potenzialità della mente impiega in certe iniziative o come
correggere dei comportamenti senza punire e creare ostilità. E
insegnare agli allievi a metterci del loro, affinché non eseguano in
modo speculare quello che è loro detto. Se quest'ultimo punto non
viene seguito, si rischia di ritrovarsi con adolescenti ribelli o
solo esecutori di compiti e con adulti incompleti.
L'obiettivo,
quindi, è fare in modo che il ragazzo diventi autonomo, che sia lui
a decidere quello che fa. Può sembrare un rischio, ma se
l’istruttore è capace di essere una figura di riferimento, il
ragazzo non farà di testa sua, ma esattamente quello che si aspetta
chi lo guida, senza però avere la percezione di essere stato portato
per mano.
Errore,
invece, da evitare è spingere il ragazzo a imitare il gesto del
campione. Al bambino prima bisogna insegnare ad avere armonia col
proprio corpo e solo in un secondo momento gli si può proporre di
provare a fare in un dato modo. Se metti un bimbo davanti a un
compito troppo difficile e, come nel caso del gesto del campione, del
tutto impossibile, stai facendo la cosa più diseducativa. Nulla è
più diseducativo di chiedere cose irrealizzabili. Questo discorso
vale sia per i genitori e sia per gli allenatori, perché c'è una
tendenza a spronare i propri figli per essere i migliori e i primi
ovunque, ma se riescono a essere solo secondi che cosa accade? Sono
costretti a considerarsi degli sconfitti.
Lavorare
con gli adulti invece è più complicato. Se hanno un difetto, è
molto difficile toglierglielo. Questo è un tentativo che ho provato
a fare al Torino, l'anno dopo lo scudetto, trovando una forte
resistenza. Quando una persona non abituata a provare e a imparare il
nuovo è messa di fronte a una novità che mette in crisi convinzioni
molto radicate, è facile che si opponga, e questo vale per i
giocatori, come per gli allenatori. Specialmente con i secondi, è
importante non salire mai in cattedra, lasciando che siano loro ad
arrivare alla proposta che si vuole presentare. Una competenza dello
psicologo, quindi, sta nell’operare in modo che si arrivi insieme
alle soluzioni.
Un
aspetto caratteristico che riguarda il lavoro con gli adulti sta nel
fatto che si lavora anche sulla prestazione. Se si riesce a togliere
un po' di tensione o rendere proficua la concentrazione è già un
buon lavoro. La mia massima preferita è che la concentrazione più
efficace è quando si entra in campo raccontandosi l’ultima
barzelletta. Chiaramente sono stato attaccato, ma prova a riflettere
su come stavi emotivamente quando hai realizzato la tua miglior
partita o, addirittura, hai sostenuto il miglio esame, e capirai che
non è la solita stravaganza. L'agonismo consiste nel saper far
fronte alla situazione che sta capitando con prontezza, lucidità e
fiducia di sapercela fare, e non è una cosa da invasati: non può
capitare che più sei carico di paura di non farcela meglio giochi.
Nella
mia esperienza ho visto che le strategie utilizzate per ottenere la
concentrazione non sono sempre le più efficaci. Mi ricordo un
portiere, che ha giocato in Nazionale, che a occhi chiusi stava
provando a immaginarsi tutte le possibili parate. Gli chiesi: “Dove
ha tirato”? “A destra”. “No, a sinistra”, gli risposi. A
quel punto fu preso dal panico: “Non mi faccia più questi scherzi.
Adesso devo ricominciare da capo”.
Ti
rendi conto di quante energie sono necessarie per fare un lavoro del
genere e di quanto incida sulla sicurezza? Inoltre, se non hai un
feedback immediato sull'efficacia di ciò che stai facendo, non ti
rassicurerai mai di poterla portare in gara. La concentrazione si
ottiene in cinque minuti, ma se la cerchi in questo modo rischi di
perderla e di aver paura di non trovarla quando ti serve veramente.
Perché questo portiere continuava a cercarla in questo modo? Gli
serviva, perché qualsiasi rituale legato alla superstizione, una
volta radicato, è indispensabile per non cadere di più nella paura,
come il sale buttato dietro la schiena, che diventa un amuleto di cui
non si può fare a meno, pena la caduta nel panico.
In
cosa consiste il lavoro di uno psicologo dello sport?
Uno
psicologo dello sport, all'interno di una squadra e attraverso il
lavoro con l'allenatore, deve creare le condizioni affinché i
giocatori si muovano in una data direzione perché quella è migliore
e più utile. In questo senso, avere delle competenze psicoterapiche
è un grande vantaggio, perché significa entrare in sintonia con gli
altri e lavorare insieme, in modo da portarli ad assumere le
direzioni più utili senza imporle. Più semplicemente, se pure con
l’aiuto di qualcuno, significa arrivare alla conoscenza percorrendo
tutto il tragitto senza essere portati per mano, che è l’unico
modo per non perderla. La direzione che preferisco è quella che
porta alla creatività, all’iniziativa libera, alla responsabilità,
all'autonomia e al sapersi arrangiare.
Va
invece evitata la deriva, anche abbastanza normale, di voler lavorare
con uno sportivo in ottica curativa. La psicologia dello sport non
significa curare!
Discorso
diverso è, invece, quello connesso all'errore. Non parlo degli
errori legati al volersi esibire o al voler fare i furbi. Ci sono
errori ed errori! Pensa a un errore di tipo tattico. Se un
allenatore, a seguito di un errore, lancia un urlo, insulta o
minaccia, il ragazzo si blocca, e finirà per ripetere unicamente ciò
che sa già fare. per questo motivo i ragazzini che non sbagliano non
mi piacciono.
Lo
sport non è matematica. In matematica è meglio sbagliare il meno
possibile, mentre nello sport l’errore può diventare una
ricchezza, se porta a un processo di riflessione e discussione.
Ci
può spiegare il valore evolutivo dell'errore?
L'errore
è strettamente collegato allo sviluppo del talento di uno sportivo.
Senza errore, far emergere il talento diventa complicato, direi quasi
impossibile perché, a mio modo di vedere, è connesso all'iniziativa
personale e al saper creare nuove situazioni, idee e azioni. E se
cerchi il nuovo, è inevitabile sbagliare, perché si sperimentano
iniziative e strumenti non ancora collaudati.
Il
talento ci differenzia l'uno dall'altro, ed è attraverso l'errore
che accade nell’iniziativa personale non ancora sperimentata, che
lo posso scoprire e utilizzare il mio talento. in pratica, vado a
utilizzare parti del mio talento che forse nemmeno io fino a quel
momento conoscevo ancora.
Non
è facendo eseguire compiti difficili che sviluppo il talento, ma
stimolando l'iniziativa personale e concependo l'errore in ottica
evolutiva. A un ragazzino non puoi far imitare il gesto tecnico di un
fuoriclasse, perché ogni campione è diverso da tutti gli altri e ha
anche qualità che nessuno potrà mai imitare, ed è quasi sicuro che
il ragazzino non lo diventerà mai. Il rischio di una strategia
simile è di comunicare a un bambino che non è all'altezza, mentre
un bambino ha il diritto di sentirsi sempre capace. Chiedergli di
imitare il campione significa quindi chiedergli l’impossibile, e
caricarlo di un’insicurezza che gli taglierà le gambe anche in
futuro.
Chiaramente
non basta lasciare sbagliare un bambino. Un allenatore deve saper
anche recuperare insieme al bambino l'errore commesso, e questo
avviene attraverso il dialogo e il confronto. Non è l'allenatore o
lo psicologo che recupera l'errore, ma è il dialogo tra bambino e
adulto che permette questo passaggio. Come ho sempre consigliato agli
allenatori, la cosa migliore da fare quando viene commesso un errore
è lasciare che accada. Al termine dell'azione, o meglio della gara,
vai poi a chiedere al bambino o al ragazzo cosa voleva fare quando
l’ha commesso. E non lo fai con un atteggiamento severo o
giudicante ma curioso, e con una disposizione a imparare tu stesso
dai giocatori. Quanto tutto ciò accade e tu fai una domanda come
questa a un giocatore, crei un processo di riflessione cui prende
parte tutta la squadra.
L’allenatore
potrebbe inoltre scoprire che l'intenzione del giocatore, se fosse
andata a segno, sarebbe stata creativa e avrebbe creato anche un
nuovo schema di gioco. Ricordo quando, confrontandomi con Trapattoni,
un personaggio da favola, lui mi domandava, in modo un po’
provocatorio, cosa fare se un ragazzino tenta uno stop con il tacco.
Gli risposi di lasciarlo fare e poi di suggerirgli di provare anche
in altro modo. Prima però un ragazzino deve avere la possibilità di
impadronirsi dell'armonia del proprio fisico e, solo dopo, puoi
dirgli di cambiare.
Un
altro aspetto, e non di poco conto, è che se un ragazzo ti
percepisce come un modello valido, ti segue e, se passi del tempo con
lui, non c’è nemmeno il bisogno di correggerlo. È lui stesso a
fare ciò che ti aspetti, anche se può sbagliare perché si deve
impratichire. Chiaramente devi essere sufficientemente abile da
fornire al ragazzo gli elementi mancanti per poterci arrivare da
solo. Questo è il succo dell'autonomia! Non parliamo certo di
autorizzazione a sbagliare, ma a provare, perché dopo un paio di
errori quel ragazzo non sbaglierà più.
Attraverso
questo procedimento avvengono processi evolutivi significativi. Mi
ricordo di aver lavorato con un giovane nella Primavera del Torino.
Al tempo faceva la riserva. Lo osservavo durante le partite e
confrontandomi con l'allenatore notammo che aveva delle buone idee e
che era capace di usare il cervello. Decidemmo di lasciarlo provare
e, come sai, ha giocato in squadre importanti ed è stato anche
convocato in Nazionale.
Diversi
atleti che ho avuto l'opportunità di intervistare propongono una
differenziazione tra gruppo e squadra. Raccontano di esperienze in
spogliatoi pieni di conflitti e incomprensioni, e di trasformazioni
incredibili in campo fino a raggiungere risultati notevoli. Cosa ne
pensi al riguardo?
Preferisco
sostituire a “squadra” il termine “collettivo”. Il gruppo ha
a che fare con lo stare insieme, mentre collettivo significa mettere
insieme le mie e le tue iniziative. Quando le mie iniziative
dipendono dalle tue e le tue dalle mie, creando qualcosa insieme per
raggiungere un medesimo obiettivo, stiamo parlando di collettivo.
Un
allenatore delle nazionali di sci mi raccontava che secondo lui si
era formato un collettivo perché gli atleti erano amici. No, questo
non è un collettivo, ma è solo un gruppo solidale al proprio
interno. Il collettivo è un'altra cosa!
È,
quindi, possibile, secondo te, che esistano differenze così marcate
tra le esperienze vissute in campo e fuori?
Guarda,
è come quando una coppia mi racconta che litiga tutto il giorno, ma
poi, a letto insieme, tutto si sistema. Non sono d'accordo con questo
discorso. Quando tu capisci l'altro, sai anche cosa proporgli in
campo. Non sto dicendo che bisogna essere amici per forza, anzi! Gli
allenatori che vogliono che i giocatori siano amici, appellandosi a
qualche invenzione della psicologia approssimativa, sono dannosi.
Sempre, ma soprattutto in certi casi, credo che la psicologia
raffazzonata proposta da chi non ha idea di cosa sia, vada proprio
dimenticata.
Mi
ricordo, però, che quando ero al Torino i giocatori della Primavera
hanno scritto un libro con 200 schemi di gioco inventati da loro. Se
tu, allenatore o psicologo, li metti a lavorare anche fuori dal
campo, lavoreranno insieme anche in gara, ma devi fare in modo che
non ci sia una personalità che prevale senza avere caratteri da
leader o una che crea zizzania. Quando sei capace di fare in modo che
condividano pensieri e iniziative, il collettivo che si crea è di
ben altra caratura.
Ho
ancora nitido il ricordo di Osio, ex giocatore del Parma, e di Comi,
oggi nella dirigenza del Torino. Quando li osservavo giocare in campo
sapevo già come sarebbe finita l'azione. Il gesto di uno era una
proposta per l’altro, e con pochi passaggi arrivavano in porta.
Come dire che il collettivo richiede la capacità di intuire le
iniziative dell'altro.
Ora
mi piacerebbe chiederti nella costruzione di un successo qual è la
percentuale da assegnare alla testa e quale alle gambe o al corpo. So
che può sembrare una domanda banale, ma mi piacerebbe sapere cosa ne
pensi...
Il
corpo vale il 50% e la testa il 50%, perché sia l’uno che l’altra
sono indispensabili. Se questi due aspetti vengono sommati, si
raggiunge il 100%. Se metti, però, la testa al servizio delle gambe
e le gambe al servizio della testa la somma fa molto di più. Di
contro, se un atleta è un grande talento, ma non ha il cervello per
usarlo bene, sarà sempre uno sportivo incompleto.
L'intelligenza
ha un peso enorme, ma una parte non ha più peso dell'altra: entrambe
pesano di più se vengono messe insieme. Chiaramente bisogna farle
lavorare insieme, che vuole dire libertà di fare, e perché testa e
corpo si connettano al meglio è fondamentale insegnare già ai
bambini a collaborare. Non bisogna cadere nell’errore di schierarsi
dalla parte del corpo o della testa pensando che la propria ipotesi
sia la migliore. È necessario lavorare al meglio sulla cooperazione
di entrambe verso lo stesso scopo perché, se metti due parti contro
come succede in politica, dove tutti pensano di aver ragione e
perdono di vista la verità. Abituare i giovani a decidere, agire e
proporre insieme muove in questa direzione, e per questo motivo
bisogna insegnare ai ragazzi lasciandoli fare.
Un’altra
riflessione. A volte capita di sentir dire che un atleta o una
squadra in una data partita, che io chiamo “magica”, hanno dato
il 110%. Non è possibile dare il 110%, perché ognuno da per le
possibilità di cui dispone. Al massimo si deve cercare di arrivare
al 100%, anche se non ci arrivi mai, altrimenti non c'è possibilità
di evoluzione.
L'allenatore
deve capire che in quella partita, quel giocatore ha giocato dando
quello di cui lui è capace. Da ciò consegue che l'allenatore deve
lavorare non su come quel giocatore gioca di solito, ma su come ha
giocato anche in una sola partita. L'allenatore deve lavorare sui
livelli più alti, perché al 100% operano l'intuizione, la
creatività, l'iniziativa libera, l’ingegno e la responsabilità.
Questi sono i livelli che un allenatore deve andare a cercare.
Una
volta, a un allenatore che in gara urlava ai ragazzini tutto ciò che
dovevano fare, ho domandato come potessero far emergere il loro
talento se dovevano solo eseguire e non avevano la possibilità di
utilizzarlo secondo la situazione sempre mutevole che il gioco
propone. “Perché si abituino subito al gioco degli adulti e non
imparino gesti sbagliati che poi saranno difficili da correggere”
mi disse. Gli risposi che ognuno di noi ha qualcosa che gli altri non
hanno, ed è su quello che bisogna lavorare, ma non lo possiamo fare
noi, perché non lo conosciamo. In altre parole, ognuno ha il proprio
talento e lo deve poter esprimere, mentre non ha nessun significato
credere di indovinare attribuendogli quello del fuoriclasse.
Ascoltandoti
mi raffiguravo lo sportivo come diviso in tre parti: 1) il
corpo/gesto; 2) la testa/intelligenza; 3) il carattere. Cosa ne pensi
di questa ipotesi?
Non
amo il termine carattere, lo trovo brutto.
Che
termine utilizzeresti?
Personalità.
La personalità, però, non la costruisci tu, ma aiuti il bambino, e
poi il ragazzo, a costruirsela. Crei delle situazioni nelle quali
debba operare, pensare, decidere, agire ed essere responsabile o,
meglio ancora, lasci che sia il gioco a proporre situazioni da
affrontare e risolvere. E lo apprezzi per quello che sa fare e non
per quello che vorresti che facesse. In questo modo permetti che lui
si formi la personalità, che coincide con la sicurezza di provare,
sbagliare e sapersi correggere, e la consapevolezza che sarà
apprezzato anche se sbaglia.
Preferisco
chiamarla personalità, perché al suo interno ci vedo anche
l'intelligenza e le potenzialità della mente. Parliamo un attimo
della testa. Si compone di due parti, quella destra, creativa, e
quella sinistra, più pratica. Se fai lavorare insieme queste due
parti, arrivi a promuovere quello che puoi ottenere da una persona,
compresa l'emersione del suo talento. Qualcuno dice di lavorare sulla
creatività di un giovane lasciandolo scegliere tra più possibilità,
ma se gli indichi già la soluzione, potrà scoprire la risposta
esatta, ma non sviluppi la sua creatività.
Intendo
la persona come un insieme di stati d'animo, emozioni e razionalità.
Lavorando con lui senza indirizzarlo in modo massiccio, arrivano poi
l'autonomia e la responsabilità, e quando hai raggiunto questa meta,
hai ottenuto tutto. Purtroppo, nello sport, con quest’obiettivo non
si lavora spesso.
Mi
puoi spiegare in cosa consiste il compito dell'allenatore?
Sergio
Vatta, con cui ho collaborato, aveva sintetizzato il compito
dell'allenatore dicendo che è chi sposta il pallino più avanti,
lasciando che gli allievi lo raggiungano. La sua presenza è
importante quando gli atleti incontrano una difficoltà o quando
manca qualcosa per fare quello stop in avanti. In pratica, ti dà ciò
che ti manca per fare da solo e percorrere tutto il cammino verso una
conoscenza, ma non ti dà mai la soluzione.
Ti
porto un esempio che chiarisce cosa intendo per insegnamento. Ho due
figlie che hanno due anni di differenza, abituate a parlare di tutto
e che sono sempre state brave a scuola. È capitato che entrambe mi
chiedessero aiuto per un compito di matematica. Ebbi buon gioco a
dichiararmi non capace a causa della mia formazione classica e a
proporre di provare insieme. Le figlie mi proponevano diverse
possibilità di procedere, e quando trovavano quella giusta, le
lasciavo fare. Quando incontravano un ostacolo, lo facevo rilevare e,
al massimo, ponevo una domanda che evidenziasse il motivo del dubbio,
in modo che, risolvendolo, arrivassero poi da sole alla soluzione. In
realtà, in qualche modo erano state guidate, ma solo per
interpretare i passaggi che non conoscevano ancora, e in questo modo
sentivano di esserci arrivate da sole.
Cosa
ti fa imparare nella vita se non la consapevolezza di poter imparare
e di sapercela fare da solo? Se vai avanti con chi ti dice sempre
cosa fare, e nello sport succede spesso come fosse un addestramento,
quando rimani da solo, sei fregato! Non ce la fai!
Quando
vedi una partita e ti accorgi che i ragazzi ripetono sempre le stesse
cose con precisione meticolosa, siamo caduti nel tipico errore. Tempo
fa, un amico mi ha invitato ad assistere a una partita di bambini di
nove-dieci anni. Il loro allenatore continuava a impartire ordini più
che consigli, ed io vedevo quei bambini confusi. Dando continue
indicazioni come puoi agire sul talento? Il talento si manifesta
quando il ragazzo trova da solo la soluzione creativa. Il talento non
è il gesto o l'intenzione che gli hai proposto tu, perché questa è
la tua.
Questi
aspetti dal mio punto di vista sono fondamentali. Dobbiamo insegnare
ai bambini a imparare con le loro forze, sbagliare quando cercano il
nuovo e correggere i propri errori. Anche perché, senza errori e
senza capacità critica, non s’impara a correggersi e a scegliere
la soluzione più adeguata alle situazioni.
Intervistando
diversi atleti, ho potuto prendere consapevolezza di come il termine
della carriera sia il momento più difficile e delicato. E' così
anche nella tua esperienza?
Certamente.
Per questo motivo, quando lavoravamo con i ragazzi della Primavera,
li obbligavamo a conseguire al minimo un diploma. Gli sportivi che
sono condotti per mano, invece, non imparano ad agire in autonomia e
quando chiudono la loro carriera sportiva, si trovano in difficoltà.
Sarebbe
importante che tu t’interfacciassi con i ragazzi come se lo sport
fosse uno dei tanti aspetti della vita, non differente da tutto il
resto. Questo renderà il ragazzo autonomo, e quando uscirà dal
mondo dello sport, farà tranquillamente altro.
Ho
avuto l'occasione di vedere grandi campioni, con più talento e
classe degli altri, elemosinare la possibilità di allenare dei
ragazzini di dodici anni, al termine della loro carriera sportiva. Se
hai un grande talento quando vivi il tuo periodo, vai a meraviglia,
ma se non sei stato abituato a tirarti su le brache da solo, dopo le
cose si fanno dure.
Ho
ancora forte il ricordo di un ragazzino arrivato al Toro cresciuto
con genitori alcolisti. Questo ragazzo era molto in gamba, più di
molti altri, un vero talento, ma nessuno l’ha aiutato a essere
autonomo e responsabile. Seppure fosse forte e ingegnoso, si fece
inguaiare in vicende di droga e finì per evaporare.
Giocava
nella primavera del Toro e prima del derby con la Juve, con
dall'altra parte un fortissimo nazionale, mi disse: “Lui fa il suo
gioco, io il mio”. E lo fece benissimo. Aveva grandi doti, ma
nonostante questo fu ceduto e passò in un'altra squadra sempre di
serie A, perché il livello era veramente alto. Purtroppo questo
ragazzo fece questa fine perché era cresciuto in un ambiente che non
lo aveva aiutato a diventare responsabile. Mi sarebbe piaciuto poter
lavorare più tempo con lui, ma non fu possibile. Ne ricordo un altro
che si lamentava con me perché l'allenatore della prima squadra lo
aveva messo fuori senza una spiegazione. Mi diceva che se solo avesse
saputo la ragione avrebbe potuto correggere il suo errore.
Seppure
molti giocatori, quando terminano la loro carriera, non sappiano da
che parte andare, ci sono anche quelli autonomi, capaci di sistemarsi
percorrendo nuove strade e professioni. Questi, magari non hanno
fatto gli scienziati, ma sono usciti con successo nell’ambiente
esterno, o hanno sfruttato la loro fama quando erano ancora nello
sport per avviare delle attività.
Se
l’obiettivo è sviluppare una persona capace di affrontare un
futuro lavorativo, è necessario fargli vivere lo sport, come se
anch'esso fosse un lavoro. In questo modo, diventerà una palestra di
vita, e la renderà adatta ad affrontare un mondo diverso dal suo.
Per questa ragione sorrido quando sento che vengono date multe a
giocatori che arrivano tardi agli allenamenti o che addirittura
vengono raccattati a casa! Dimmi, se tu hai una visita dal medico, o
tu stesso lo sei, arrivi in ritardo o qualcuno passa a casa
prenderti? No! Per questa ragione in tanti poi non sanno fare da
soli.
Perché
ci sono sportivi impreparati per affrontare quello che verrà dopo la
loro carriera sportiva? Perdono una parte importante di vita in cui
si deve imparare a risolvere i problemi. Questo vale anche nei
rapporti con le ragazze. Mi ricordo frotte di ragazzine che
aspettavano fuori dagli allenamenti i giocatori, pronte e disponibili
per riuscire a esibirli. Io li chiamavo “cagnolini afgani”, belli
ed eleganti.
Anche
quando sento che i giocatori vanno a scuola, ho qualche dubbio. Ci
sono scuole e scuole, e ho il dubbio che in alcune di queste vada
soltanto per essere promosso alla fine dell’anno, anche se non
t’impegni. Non si fa, quindi, abbastanza per rendere autonomi e
responsabili i ragazzi.
Va
detto che questo è anche un problema sociale, perché vedo i miei
nipoti, bambini svegli che non si assumono le responsabilità che ero
solito assumere io alla loro età. Io ho avuto la fortuna di crescere
con un padre che, da sempre, mi ha affidato responsabilità e
compiti, e quando chiedevo: ”Come si fa?”, mi rispondeva:
“Guarda” o, anche, “arrangiati”. Fantastico!
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