Carlo Alberto Cimenti è stato il primo alpinista italiano ad aver conseguito lo "Snow Leopard", l'onorificenza assegnata dalla federazione alpinista russa a chi scala le cinque cime 'over 7000' dell'ex Unione Sovietica, situate nel Pamir e nel Tien Shan.
In una tua intervista,
hai sottolineato come nelle gare svolte in squadra sia importante
“perdonare gli errori dei compagni”. Posso chiederti se esiste un
atteggiamento che possa favorire questa capacità?
L'atteggiamento deve
essere positivo. In una competizione quando l'errore non dipende da
te, ma dagli altri, chiaramente ti risenti o ti arrabbi. Per superare
la difficoltà del momento è, però, importante riuscire ad essere
comprensivi. Rispetto a criticare assumendo un atteggiamento
negativo, credo sia più produttivo aiutare ed essere positivi.
Questo anche quando quell'errore inficia il risultato della gara o
addirittura lo compromette.
Il trofeo Mezzalama è la
gara per eccellenza in cui queste situazioni accadono. Si presentano
per tutte le squadre, anche quelle che vincono. In questa gara di
sci-alpinismo, in cui le squadre sono formate da tre persone,
l'attimo di difficoltà, la caduta tua o del tuo compagno o la crisi,
sono cose che accadono praticamente sempre. Essendo in tre le
probabilità sono molto alte. Quando queste situazioni si verificano,
tutti i membri della squadra devono essere forti e devono avere un
atteggiamento positivo, per superare così la situazione difficile.
Ho visto molte squadre in
cui gli atleti invece di aiutare un compagno lo criticano e lo
accusano, demoralizzandolo ulteriormente. Quel compagno potrebbe
superare l'attimo di crisi e concludere bene la gara, uscendone, ma
così finisce invece per peggiorare sempre di più fino ad arrivare,
in certi casi, al ritiro.
Secondo te questo
atteggiamento poco critico, si costruisce fuori dalla gara o può
essere limitato unicamente alla gara?
Conoscere
il tuo compagno e allenarti con lui rende l'affiatamento più
forte. Se, invece, ti incontri unicamente per la gara sei molto più
portato a criticare, a “lasciare perdere”, senza fornire il tuo
supporto. Avere affiatamento sarà quindi più complicato, salvo che
tu tenga talmente tanto a quella competizione fino a superare anche
questi ostacoli. Conoscendo una persona questa attitudine, a superare
le avversità insieme, si sviluppa più velocemente. Non conoscendola
sarà molto difficile costruirla.
Personalmente
cerco sempre di pormi agli altri con un atteggiamento costruttivo e
collaborativo. Questo atteggiamento, oltre ad essermi servito molto
nelle gare mi è stato utile anche nella vita. La gara è una fucina
di Dio, una fucina di vita. Se tu riesci a cogliere gli insegnamenti
che ti propone e a metterli in pratica anche nella vita quotidiana,
secondo me è una grande cosa.
C'è quindi una linea
di continuità tra le gare e la vita quotidiana?
Si.
Alcune capacità che ti aiutano a superare le difficoltà di gara, le
puoi utilizzare anche nella vita. La tenacia, la costanza, la
concentrazione, la voglia di arrivare anche soffrendo sono alcuni
esempi. L'atteggiamento nella competizione come nella vita quotidiana
deve essere sempre lo stesso.
Un
altro aspetto fondamentale è come ti spieghi i successi o gli
insuccessi ottenuti. Non sei giustificato a rinunciare perchè il tuo
compagno ha sbagliato, ma devi comunque mettercela tutta per ottenere
il risultato migliore. La giustificazione per me non va bene. Se dici
“sono arrivato solo decimo, perchè...”, secondo me sbagli. Devi
capire cosa hai sbagliato per cercare di migliorarti.
Quando
arrivo secondo cerco di capire cosa ho sbagliato, in modo che la
prossima gara possa arrivare primo. Fino a quando non sei arrivato
primo, la spinta a migliorarsi non deve terminare. L'atteggiamento
costruttivo e di esame della propria prestazione deve essere questo
sia nelle gare, come nella vita.
Nella vita di tutti i
giorni e nella scalata a un 8000m, le persone che hai intorno a te
cambiano di “significato” o ci sono delle costanti?
Se sei in alta quota,
dove l'aria è molto rarefatta e le condizioni sono più estreme, tutto cambia. I valori della vita
cambiano, perchè sei in un ambiente in cui tutto è portato
all'estremo. Se stai male a 7000 metri è difficile che venga
l'ambulanza a prenderti o l'elicottero o che si riescano a organizzare
delle operazioni di soccorso efficaci. Se ti rompi una gamba a 7000
metri devi cavartela da solo a scendere. Se ti viene un edema devi
essere capace di riconoscere i sintomi e scendere da solo o
iniettarti le medicine da solo. Chiaramente se non hai la fortuna di
avere un medico di fianco.
In alta quota devi
sapertela cavare da solo e tutti i valori sono portati all'estremo se confrontati alla vita normale. Questo aspetto ti permette di
conoscere più profondamente le persone che hai al tuo fianco. Riesci
a capire di chi ti puoi fidare e di chi non ti puoi fidare. Una
persona non cambia, ma si estremizza.
In quelle situazioni
vengono fuori i valori veri. Porto un esempio: se tu sei cattivo, la
cattiveria verrà fuori e non riuscirai a mascherarla come può
accadere in una situazione sociale, di vita quotidiana. Tutti gli
atteggiamenti profondi e i valori profondi di una persona vengono
fuori. A differenza della società, dove ti condizionano milioni di
fattori, in un contesto di alta quota esce la tua indole più
sincera.
L'alta quota va come a
scremare tutti i fattori sociali fino a far rimanere i fattori più
radicali e drastici, come lo è la sopravvivenza. La sopravvivenza
incide poi notevolmente perchè fa venir fuori la vera personalità
di ognuno di noi.
La situazione estrema
rende quindi più leggibile l'altro?
Si, lo rende più
leggibile. Chiaramente anche tu devi saperlo leggere, perchè rischi
di essere offuscato dalla fatica. Comunque anche a 8000 metri, con i
sensi offuscati, devi capire di chi ti puoi fidare di chi ti puoi
fidare meno e di chi in quel momento ha bisogno di essere aiutato.
Se ti chiedessi cosa è
per te il rischio, cosa mi risponderesti?
Il
rischio, considerando la mia vita, è qualcosa che devo correre per
forza. In una scalata ad un 8000 metri devi passare da alcuni tratti
in cui sei sottoposto a pericoli oggettivi come la caduta di
seracchi. In una scalata normale puoi valutare se il rischio è
troppo elevato ed eventualmente a tornare
indietro, ma se vuoi raggiungere un 8000 e hai solo quel periodo
rischi di più.
Il
rischio è una costante, mentre l'affrontare dei pericoli dipende dal
tuo intento, dalla motivazione e dalle considerazioni che andrai a
fare. Devi comprendere il rischio che vai ad affrontare e devi
domandarti se vuoi affrontarlo. Quando vai su un 8000 tu rischi
sempre di lasciarci le penne e sta quindi a te decidere quanto vuoi
rischiare.
Oltre
al rischio esiste sempre anche la paura, che è importante che ci
sia. Quando passo sotto ad un seracco ho paura, perchè so che può
staccarsi da un momento all'altro. Quando vai sulle Alpi e sei
esposto per un'ora e mezza alla possibile caduta di un seracco, tu
devi avere paura. E' la paura che ti permette di salvarti la vita. Ti
fa essere più veloce in certi tratti e ti fa rinunciare nel momento
giusto, prima che tu possa morire o prima che si stacchi una valanga.
La paura ci deve essere, poi tu puoi dominarla.
Credi che durante la
scalata ad una vetta alpina o ad un 8000 sia più importante saper
aver paura o saper dominare la paura?
Credo
siano importanti entrambe. Saper aver paura e saperla riconoscere è
importante, ma quando ti trovi in una situazione particolarmente
difficile e di pericolo la paura deve farti drizzare le orecchie, ma
la devi saper controllare.
Da
una parte la paura è atteggiamento cognitivo che ti fa prevedere il
pericolo, ma quando sei in una situazione di pericolo in cui rischi
la vita, se la paura si trasforma in terrore rischia di bloccarti
facendoti assumere comportamenti che potrebbero esserti fatali. In
quel momento la devi controllare, per uscire così dalla situazione
di pericolo.
A livello mentale
quando credi si incontrino le maggiori difficoltà nello scalare una
vetta? Nella programmazione, negli allenamenti, nella prima fase
della scalata, poco prima della vetta, in vetta o in discesa?
Tutti
dicono che la parte più difficile di una scalata è la discesa che
segue il raggiungimento della vetta. Credo però che organizzare gli
allenamenti quando sei molto lontano dall'obiettivo sia molto
faticoso dal punto di vista mentale.
Ora
ad esempio so che in primavera, ad aprile, voglio andare in cima al
Makalu e questo mi richiede di iniziare già adesso ad allenarmi.
L'obiettivo è però talmente lontano, le condizioni climatiche qui
sono talmente diverse, che mi è molto difficile allenarmi con già
l'obiettivo in mente e con una buona concentrazione. Per far fronte a
questa difficoltà mi pongo obiettivi intermedi. Decido, ad esempio, di
partecipare ad una gara di 80km sulle Alpi, per allenarmi per
arrivare in condizione a quell'appuntamento.
Per
quanto riguarda la discesa non credo sia faticosa, mentre il rischio
riguarda una possibile perdita di concentrazione. Quando hai
raggiunto l'obiettivo che ti eri prefissato o se, addirittura, hai
rinunciato, perdi concentrazione. Aggiungendo la stanchezza per la
salita appena fatta, la discesa diventa pericolosa. Nella salita
verso la cima la crisi ogni tanto capita, ma non c'è un momento
preciso. Può capitarti poco prima della vetta, a metà o appena
partito.
Esiste il “braccino
del tennista”, la difficoltà prima della vetta?
Si,
c'è sempre. Ad esempio, nell'ultima spedizione che ho fatto sul
Communism
peak ho
trovato una giornata bellissima, con cielo stupendo e poco vento.
Dall'ultimo campo in cima, però, la scalata è molto lunga e una
volta arrivato sulla cresta, a circa 7400 metri, devi procedere in
cresta fino a 7500.
Quando
sei sul colletto, praticamente sei arrivato in cima. In quel punto
sai che arriverai in cima, ma non sei ancora arrivato e ti prende un
senso paura e di tensione. Questa paura da una parte è piacevole e
dall'altra ti fa tenere le “orecchie dritte” fino al
raggiungimento della vetta.
In alcuni filosofi,
come Thoreau, il moto fisico e soprattutto lo scalare una vetta è
sinonimo di mettere ordine nei pensieri e di riuscire a pensare
lucidamente. Tu cosa ne pensi?
Assolutamente
si! Ne sono proprio convintissimo! Per pensare bene il tuo corpo deve
essere in buona salute. Credo che fare una passeggiata o del moto
tutti i giorni possa essere di estremo aiuto per pensare bene. Per
articolare ulteriormente questo ragionamento va detto che allenamenti
costanti di più ore non solo aiutano, ma diventano una forma di
meditazione. Tutti questi mezzi ti permettono di conoscere te stesso
e il conoscere te stesso, ti aiuta a pensare bene. Questo vale sia
nella corsa, come nell'arrampicata, nella bici o nello scalare una
montagna.
Quando
sei in alta quota fai 20 passi e ti fermi, fai nuovamente 20 passi e
ti fermi a respirare. Fai altri 20 passi, ti fermi e respiri. Questo
movimento costante ti permette di entrare in uno stato interiore, che
avvia il tuo pensiero e poi il tuo pensiero procede in ragionamenti
su ragionamenti. Questo processo è molto simile alla meditazione.
L'accesso ad un tuo mondo, ti permette di riflettere con un più alto
livello di concentrazione. Questo accade in particolar modo in
allenamenti molto lunghi o durante una scalata molto impegnativa.
Credi questi pensieri
siano più lucidi di quelli che puoi fare quando sei seduto sul
divano o quando sei a letto la sera?
Sono
più intensi! Credo siano più intensi, rispetto che lucidi e
ordinati. Sei in uno stato mentale che ti permette di accogliere questo
tipo di pensieri. Questo non può accadere quando sei sdraiato nel
letto e sei prossimo al sonno.
Per essere un buon
alpinista credo serva un giusto approccio mentale. Secondo te quali
sono gli aspetti caratteriali che contraddistinguono il “buon
alpinista”?
Chiaramente
la capacità di leggere e dominare la paura. Credo questa sia la
prima cosa. Accanto a questa dote, la testardaggine e la
determinazione nel voler raggiungere un obiettivo in tutti i modi
leciti.
Anche
la perseveranza nel non darsi mai vinto, anche nelle delusioni. Se
capita un insuccesso è importante pensare che è “oggi” che non
ce l'hai fatta e devi quindi comprendere il perchè. Serve quindi la
voglia di ritornare a percorrere la propria delusione, per poter
migliorare il percorso svolto, portandolo fino alla cima.
Io
ad esempio sono arrivato alla cima al Manaslu e già pensavo al progetto successivo che poteva essere arrivare in
cima ad un'alta montagna. Quando sono arrivato in cima al Communism
peak, che segnava la
coronazione del progetto Snow Leopard, avevo già altri tre o quattro
progetti che mi passavano per la testa. La voglia di continuare a
provare nuove esperienze, senza fossilizzarsi, migliorando sempre.
Andare sempre oltre...
Si,
quello serve per trovare le motivazioni. Un atleta deve essere
motivato, perchè fare sempre la stessa cosa ti demotiva. Se non
riesco ad arrivare in cima ad un 8000 metri la prima volta, il
pensare che dovrò partire l'anno successivo per riprovare mi fa
essere un po' demoralizzato. So che passerò nello stesso posto,
dallo stesso punto e che mi troverò ad affrontare lo stesso
passaggio e la stessa montagna.
Per
me lo scalare una montagna è un modo di conoscere nuova gente, nuovi
paesi e cose nuove. Tornare nello stesso paese e sulla stessa
montagna per me non è bello, però se voglio raggiungere un
obiettivo lo devo fare. In questo senso credo che la perseveranza sia
fondamentale, perchè ti permette di raggiungere i tuoi obiettivi e
di superare i tuoi limiti.
Una
volta raggiunto l'obiettivo, ti si chiude anche un capitolo. Penso
che ormai quella montagna è stata raggiunta e che io li non ci
tornerò più, salvo che per lavoro. Cerco sempre nuovi orizzonti,
per migliorare sempre.
L'alpinismo è uno
sport per anime solitarie, ma è importante avere fiducia totale
nelle poche persone vicine. Cosa significa per te questa fiducia?
Secondo
me è uno sport solitario, perchè in certe situazioni sei solo tu e
non puoi contare sul tuo compagno. Faccio un esempio relativo al
mondo che conosco meglio: l'alta quota.
Oltre
i 7000 metri, i 7500, fai talmente tanta fatica che finisci per
essere tu e basta. Anche se di fianco a te c'è un tuo amico, procedi
in modo autonomo, perchè in quell'istante ci sei solo tu. Questo è
l'aspetto dell'alpinismo solitario. Oltre certe quote o oltre certe
difficoltà, l'alpinismo diventa solitario, anche se sei in mezzo ad
altre 10 persone.
Il
tuo compagno conta invece molto nel percorso e conta molto aver
fiducia nel compagno fino al punto dopo il quale dovrai procedere in
modo solitario.
Dico un'assurdità se
affermo che una vittoria si costruisce insieme, ma si finalizza da
soli?
E'
più o meno quello che penso, anche se esistono situazioni e
situazioni. Se devi fare una via tecnica su roccia e ti trovi a
lavorare in squadra, come può accadere ad esempio su le Grandes Jorasses,
quando arrivi in due in cima, la vittoria è di entrambi, anche se non si deve parlare di vittoria in montagna, ma di successo, raggiungimento della cima o dell'obiettivo, in montagna o con la montagna non si vince. Devo però dire che nella maggior parte dei casi sono d'accordo con la tua
affermazione.
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