mercoledì 11 novembre 2020

Giù le mani da Nibali!

Dopo l'ultimo Giro d'Italia non si sono più contati ormai gli attacchi a Vincenzo Nibali da parte di pseudo tifosi, che di ciclismo sanno probabilmente poco, oppure, se proprio conoscitori del mondo dei pedali, hanno metri di giudizio tutti particolari. In un mondo dove ognuno può dire la propria, c’è anche questo.

Nell’ultimo Giro d’Italia Nibali non è andato come ci si poteva forse aspettare, e come si aspettava lui stesso. Quello che spesso i criticoni non capiscono è che il primo deluso per prestazioni non positive è l’atleta stesso. Le prime buone tappe con arrivi in salita avevano forse illuso. Il 7° posto finale si tratta della sua peggiore prestazione in un grande giro, tra quelli in cui ha puntato dichiaratamente alla classifica generale e non alle sole tappe. Ma è stato davvero un tale disastro l’anno di Nibali? È davvero così clamorosamente in fase calante? In un anno così particolare e con le gare ciclistiche racchiuse in pochi mesi, ha comunque raccolto un 6° posto al Giro di Lombardia, una buona prestazione al Mondiale di Imola (prima con la fuga insieme a Van Aert, poi rimanendo fuori dal gruppo che si è giocato il podio per aver ceduto a poche centinaia di metri dallo scollinamento, pochi secondi che avrebbero potuto farlo rimanere nel gruppo dei migliori e far decisamente cambiare il destino della gara e il giudizio sulla sua prova), e infine un Giro d’Italia corso generosamente, cercando di resistere il più possibile agli alti ritmi che i giovani rampanti tenevano davanti.
Ma da quando sarebbe così in calo il buon Vincenzo? Nel 2019, solo lo scorso anno quindi, è arrivato al 2° posto nel Giro vinto dall’ecuadoregno Richard Carapaz, dimostrando quest’anno, tra il Tour e soprattutto la Vuelta chiusa al 2° posto per una manciata di secondi, di non essere una meteora, e davanti allo sloveno Primoz Roglic, ovvero quello che al momento è il più forte corridore da corse a tappe, che dalla vittoria dello scorso anno alla Vuelta ha raccolto una sfilza impressionante di successi (tra la doppietta in Spagna, oltre alla Liegi-Bastogne-Liegi e un mondiale concluso al 6° posto giocandosi il podio nella volata finale), con la sola “macchia” del Tour perso alla penultima tappa. Al Tour dello scorso anno Nibali, pur andato forzato dal suo team, ha tentato più volte la fuga per una vittoria di tappa, successo raggiunto nella penultima frazione, cortissima a seguito di una modifica del percorso a causa di una frana, e proprio per questo corsa a ritmi altissimi e coi migliori a dare tutto fino all’ultima goccia di energia.
Il problema è che Nibali ha abituato tutti troppo bene nei precedenti anni, facendo credere di essere un fenomeno assoluto. E fenomeno lo è, senz’altro, ma la sua grandezza è stata quella di aver raccolto il massimo dalle sue possibilità, spesso inventando (come alla Sanremo del 2018), vincendo senza alcuna discussione (i 2 Lombardia), provandoci anche quando la giornata non era la migliore (come in tante altre occasioni, tra Sanremo, Lombardia e Mondiali, o alla sua unica apparizione al Fiandre sempre di due anni fa), puntando alle tappe quando la forma non permetteva di lottare per la classifica generale, facendo quasi mai apparizioni anonime. Senza contare anche della sfortuna che lo ha tolto dai giochi sul più bello alle Olimpiadi di Rio del 2016, o la caduta al Tour del 2018 quando sull’Alpe d’Huez sembrava in grado di poter fare la differenza, e il cui infortunio ha poi condizionato il resto della stagione e il Mondiale di fine anno a Innsbruck, probabilmente il più adatto a lui. E senza contare le sconfitte “controverse”, come la Liegi persa all’ultimo chilometro da Iglinskij, unica vittoria di prestigio del corridore kazako poi entrato al centro di problemi di doping e per questo ritiratosi molto presto, o la Vuelta del 2013 persa nei confronti dell’americano Horner, 41enne ai tempi, diventato quasi improvvisamente un fenomeno a quell’età. O il mondiale di Firenze sempre di quell’anno, vinto dal portoghese Rui Costa e dove Nibali, stretto nella morsa dei due spagnoli, non riuscì per poco a concretizzare la sua superiorità in salita.
Ma la sfortuna lo ha colpito persino nella vittoria, come nel Tour dominato del 2014, una vittoria a volte considerata di mezzo valore a causa del ritiro dei due principali antagonisti, Chris Froome e Alberto Contador, anche se sono in molti - compreso me - a credere che quello fu il miglior Nibali di sempre e che avrebbe potuto ugualmente vincere. Proprio in quegli anni, tra 2012 e 2014, fu probabilmente il suo periodo migliore. Ma non che dopo abbia fatto schifo! L’incredibile recupero del Giro del 2016 nelle ultime 2 tappe fu qualcosa di clamoroso, senza contare gli altri podi nelle corse a tappe (il 3° posto del Giro a 40” da Dumoulin e il 2° della Vuelta, entrambi nel 2017).
Un corridore così, capace di vincere i 3 Grandi Giri e 2 Classiche Monumento, con una sfilza incredibile di podi e di top ten sempre in queste corse, è una rarità assoluta nella storia del ciclismo e che bisogna tenersi stretta, evitando di criticarla per risultati minori rispetto alle attese.

Il problema è la solita ricerca, spesso tutta italiana, di fare paragoni col passato (e il passato, nel ciclismo, ora si chiama Marco Pantani), pensando che un atleta sia degno di essere chiamato campione tale solo dominando per anni senza sconfitte, o che un ciclista debba diventare leggenda solo con fughe epiche, senza accettare il cambiamento dei tempi e magari un ciclismo più pulito di anni decenni fa. A proposito, anche il fatto di essere stato sempre lontano da chiacchiere e dubbi sul suo conto non è cosa irrilevante per mostrare la grandezza di un ciclista che non si è mai risparmiato e che mancherà molto, quando smetterà.

(Articolo a cura di Stefano Ruzza, ultratrailrunner, trail coach e amante dello sport)

giovedì 29 ottobre 2020

Chi è il più grande di tutti i tempi? Ha davvero senso chiederselo?

Domenica 25 ottobre il britannico Lewis Hamilton ha vinto il Gran Premio del Portogallo, suo 92° successo in Formula 1, superando così Michael Schumacher e avvicinandosi anche al 7° titolo mondiale, che gli permetterebbe di raggiungere anche in questo caso l’ex pilota Ferrari. Tra addetti ai lavori e tifosi sono partiti i classici confronti tra i 2 piloti, o meglio, sono ritornati, visto che basta un nuovo record (e Hamilton ne sta infrangendo sempre di più) per riaccendere la discussione.
Lo stesso è accaduto 2 settimane prima dopo la vittoria in NBA dei Los Angeles Lakers, che ha visto LeBron James vittorioso per la quarta volta di un titolo e sempre per la quarta volta con il premio di MVP della serie finale: chi è il più grande, Michael Jordan o LeBron James?
Stesso discorso dopo la vittoria di Rafael Nadal all’Open francese: meglio lui o Roger Federer? E così via. Si potrebbe anche parlare dei confronti eterni tra Maradona e Pelé, che in questi giorni stanno per compiere o hanno compiuto 60 e 80 anni, oppure dell’altro confronto tra i contemporanei Cristiano Ronaldo e Messi.
Ovviamente per ognuno di questi confronti ci sono tifoserie o preferenze, e spesso entrano nel gioco altri grandi campioni con cui fare i confronti, ma a certi livelli è quasi impossibile dire chi sia o sia stato migliore di un altro. Eh, ma Hamilton è favorito dall’auto migliore. Eh, ma Schumacher anche. Eh, ma nessuno guidava come Senna. Eh, ma anche lui ha commesso molti errori superflui e ha vinto meno di quanto poteva. E allora Prost che gli teneva testa e spesso lo batteva? E allora il coraggio di Gilles Villeneuve? E la bravura di Niki Lauda? E il coraggio dei pionieri dei primi mondiali, tipo Fangio o Ascari?
E i discorsi sono simili nell’NBA, non conto più le volte che ho sentito o letto cose simili. Michael Jordan ha vinto perché aveva Pippen. LeBron James ha vinto cambiando squadra quando gli faceva comodo. Ma Michael Jordan era più vincente. Ma Lebron James sa passare meglio la palla. Eh allora Magic Johnson che sapeva fare tutti i ruoli ed era il più completo? E allora Wilt Chamberlain che segnava punti come nessuno e dominava fisicamente? Sì, ma era scarso tecnicamente e non sapeva tirare i liberi. E allora Bill Russell che è stato il più vincente? E la mentalità di Kobe Bryant? Sì ma senza Shaq non avrebbe vinto. E così via.
Nel tennis? Federer è esteticamente il migliore di sempre, il più completo. Ma Nadal lo ha spesso battuto ed è più forte fisicamente e mentalmente. E Djokovic che quando è in forma sembra l’incrocio degli altri due? Eh ma è antipatico. E allora il genio di McEnroe? Sì ma ha vinto meno di altri, Bjorn Borg era più completo. E Pete Sampras che è stato quasi il prototipo del giocatore moderno? Ma era freddo, meglio Agassi. E si potrebbe andare avanti all’infinito in ogni sport.
Poi pensiamo a quello che viene molto spesso considerato come il GOAT (Greatest Of All Time, il più grande di tutti i tempi) tra tutti gli sportivi, Muhammad Ali. Eppure dagli esperti ed appassionati di boxe non è nemmeno considerato il più grande del ring, di certo tra i più grandi, ma almeno 2 o 3 altri pugili lo precedono spesso nelle preferenze in questa particolare classifica. La sua grandezza semplicemente travalicava lo sport.

Quindi chi è davvero il più grande? Ma alla fine, cosa farsene di questi confronti? Hanno davvero senso? Forse cercare chi sia il migliore nel confronto impossibile tra epoche diverse è qualcosa di ancestrale nell’uomo, la ricerca di un riferimento da mettere in cima e con cui confrontarsi (oppure da buttare giù quando non fa più comodo). La mia personalissima opinione è che questi confronti hanno il senso di una chiacchierata tra amici, qualcosa di stimolante per la fantasia, tentando di immaginare cosa farebbero i campioni di oggi con i mezzi di un tempo e viceversa. Il mio pensiero è che i sondaggi lanciati ogni volta che salta fuori il discorso debbano venir presi per quello che sono, una sorta di gioco curioso, magari per capire chi è il “prototipo” perfetto per quello sport, ma evitando che vengano preso troppo sul serio, astenendosi da discussioni che spesso invece sfociano in insulti e tifoserie sfrenate a senso unico senza il minimo riconoscimento per l’atleta che non piace.

Alla fine queste “discussioni” su chi sia più forte, su chi sia il più grande, sono utili forse semplicemente per una cosa: godersi lo spettacolo del momento o le immagini del passato, cercare cos’abbiano di tanto speciale ognuno di questi incredibili atleti, e magari trarne utili spunti anche per le nostre personali imprese quotidiane.


(Articolo a cura di Stefano Ruzza, ultratrailrunner, trail coach e amante dello sport)

giovedì 22 ottobre 2020

L'importanza delle parole

Le parole sono importanti, soprattutto quelle scritte, quelle che rimangono. Io delle volte mi perdo letteralmente alla ricerca delle parole migliori per raccontare o spiegare qualcosa. Tutti gli articoli che scrivo o che ho scritto sono o sono stati un parto. Per non parlare degli altri progetti che ho da anni e che non mi decido mai a completare nell’incertezza di non averli scritti abbastanza bene o di aver dimenticato qualcosa. Scrivo, modifico, cancello, riscrivo, taglio, sposto, rimodifico, aggiungo, taglio ancora, riscrivo, fino a che ad un certo punto non mi decido a pubblicare quello che è rimasto, anche se non mi convince, anche se puntualmente, rileggendo il tutto una volta pubblicato, trovo dentro errori, omissioni, frasi uscite male, concetti non chiari, con un senso di “incompleto” che mi perseguita da sempre.

Eppure non sono giornalista. Sono un atleta, allenatore e… bo, blogger si può dire? Scrittore sarebbe troppo, potrei definirmi più un aspirante scrittore, uno dei tanti, perché non basta scrivere per definirsi tale, così come non basta avere un mantello per essere un supereroe. Creatore di contenuti? Forse, qualunque cosa voglia dire. Poi questi contenuti possono anche essere di pessima qualità, non sta a me giudicarli, ma cerco di proporre qualcosa. Ma sto divagando, queste ultime frasi erano una sorta di premessa, torniamo all’importanza delle parole. Ecco, un giornalista dovrebbe porre un’enorme attenzione alle parole. Dovrebbe raccontare i fatti, e poi eventualmente anche esporre opinioni, certo, se ben argomentate e supportate, ma sappiamo bene che spesso si va ben oltre. Da sempre si sa come non tutta la categoria sia della stessa fattura. Ma va bene, è così per ogni lavoro. Negli ultimi tempi, poi, stiamo assistendo purtroppo a una totale deriva, con articoli di bassissimo livello, spesso anche presso quotidiani più letti e venduti che parlano di premi Nobel o ricercatrici con titoli ridicoli e ridicolizzanti. Ed è (anche) un certo modo di scrivere e di far giornalismo che fa allontanare molte persone dalle notizie vere e la avvicina alle fake news o a siti totalmente inattendibili o alle teorie più strampalate. Sta accadendo di nuovo anche con gli ultimi eventi. Non parlo comunque di tutti i giornalisti, sia chiaro, non è un attacco a tutta la categoria, è obbligo precisarlo.

Ma dove voglio arrivare? Voglio arrivare ai titoli del giornalismo sportivo. Anche in questo caso non si tratta di tutto il giornalismo sportivo, solo alcuni titoli. Ne trarrebbero beneficio pesino giornali (o siti) e giornalisti stessi se certi titoli fossero più semplice. Gli atleti e i loro sforzi ne guadagnerebbero in riconoscenza. Titoli come “Delusione”, “Tizio solo terzo”, “Inizio della fine per Caio?”, “Esonero in arrivo?” distorcono la realtà ed estrapolano sentenze da un semplice risultato, frutto di infiniti fattori concomitanti. Spesso son proprio questi titoli a dare il peggio di sé, mentre gli articoli a volte sono un po’ più specifici e meno superficiali (non sempre), ma basta leggere quotidiani o siti di sport per trovare queste espressioni molto spesso, troppo spesso. Di certo c’è chi cerca il titolo ad effetto più di altri, c’è chi vuole innescare appositamente polemiche e ci sguazza dentro, ma in molto lo fanno credo senza nemmeno rendersene conto. E non è un bene. Sin dal “solo 2° posto per Sara Simeoni” in un’edizione olimpica, passando per qualsiasi articolo negativo riguardante un campione dello sport, questi titoli hanno proseguito ad apparire imperterriti, sempre di più, senza sconti per nessuno.

L’ultima vittima è stata Eliud Kipchoge, che nella Maratona di Londra dello scorso 4 ottobre (un evento per pochi atleti élite, senza pubblico, su un anello da ripetere più volte) ha avuto dei problemi fisici terminando così al 8° posto. Dopo aver vinto 11 delle 12 maratone disputate (prima di Londra), con tanto di titolo olimpico, record del mondo ufficiale e primo uomo sotto le 2h in maratona (non ufficiale), è bastata una gara non uscita bene, in un anno come questo, con condizioni gara non proprio ideali (pioveva anche e c’era molto freddo umido, non il massimo per la prestazione), per far combaciare il tutto con l’inizio della sua decadenza, secondo alcuni. Questo era solo l’ultimo caso abbastanza clamoroso di uno sport che seguo, ma ce ne saranno stati certamente altri anche in discipline che conosco meno in articoli che mi sono sicuramente sfuggiti.

Ecco, in un momento storico in cui chiunque si sente libero di poter scrivere qualsiasi commento sui social (o appunto nella sezione commenti dei siti d’informazione), sarebbe molto utile se si facesse un po’ più attenzione nel dare giudizi negativi a sportivi per una prestazione minore rispetto al solito. Le parole sono importanti, dovrebbe ricordarselo chi con le parole ci lavora ogni giorno e con esse può influenzare i pensieri delle persone comuni.


(Articolo a cura di Stefano Ruzza, trail coach e ultratrailrunner)

venerdì 16 ottobre 2020

Il calo di spettatori e i confronti col passato

Domenica 11 ottobre si è conclusa l’NBA con la vittoria dei Los Angeles Lakers contro la squadra sorpresa dei playoff, i Miami Heat. Oltre il lato sportivo (e sicuramente anche psicologico, visto che è stata completata la stagione rimanendo per 3 mesi nella cosiddetta “bolla” di Orlando negli spazi messi a disposizione da Disney World), c’è un altro argomento che ha destato curiosità e teorie varie, ovvero la diminuzione degli spettatori televisivi negli Stati Uniti.

Se le diverse teorie hanno ognuna una certa logica e possono spiegare in buona parte il calo di spettatori, alla fine ce n’è un’altra forse più semplice. Probabilmente ci saranno anche analisi statistiche che contraddicono o confermano queste ipotesi, queste sono solo considerazioni lette qua e là ampliate da altre mie personali.
Eccone quindi elencate alcune.
- L’assenza di pubblico dal vivo. Può sembrare un controsenso, visto che senza la possibilità per gli spettatori di assistere dal vivo alle partite (proprio a causa della bolla creata per salvaguardare giocatori e staff) si potrebbe pensare che più persone avrebbero potuto godere della visione in tv. In realtà poche migliaia di persone in meno sugli spalti non avrebbero cambiato di molto il pubblico davanti agli schermi, mentre invece potrebbe aver influito sul creare meno quel senso di spettacolo che agli americani piace tanto. Persino lo stesso fatto di non poter assistere a partite dal vivo per tanti mesi può aver tolto interesse: se si guarda una partita NBA dal vivo, anche senza essere tifosi, è più probabile che poi la curiosità rimanga per il resto della stagione seguendo altre partite, in particolare le Finals.
- La concomitanza con altri campionati professionistici americani. Negli Stati Uniti in genere i principali campionati degli sport di squadra sono distribuiti durante l’anno in modo da non farsi troppa concorrenza. Ad esempio nel periodo di tra fine estate e inizio autunno si svolgono i playoff di baseball (la MLB). A causa dei mesi di lockdown e del ritardo nel completare il campionato di basket, i playoff dei due sport sono finiti per combaciare togliendosi qualche spettatore a vicenda. Anche l’inizio della stagione NFL, il campionato di football, può aver spostato qualche numero. Quando normalmente l’NBA si trova a giocare playoff e finals tra fine aprile e giugno l’NFL è in pausa.
- Le prese di posizioni sociali e politiche di giocatori, allenatori e proprietari. Al netto delle polemiche e delle accuse sulle proteste (ma tutto è politica, e così come ognuno può sentirsi libero di scrivere la propria idea su internet e sui social media, così possono farlo i giocatori, che attraverso il proprio megafono possono raggiungere porzioni di popolazione solitamente lontane da certe questioni), ciò può aver influito, ma forse meno di quanto si possa pensare. Il basket, e l’NBA in particolare, non è uno sport che attrae particolarmente repubblicani conservatori. Se qualche spettatore è stato perso, di certo non è stato il motivo principale.
- Il diverso periodo e gli orari degli incontri. Partite che finiscono quasi a mezzanotte sono sicuramente più semplici da guardare a giugno, con scuole chiuse e notti più “vive” che ad ottobre.
- L’incredibile vastità delle proposte in tv o su internet. Se qualche decina di anni fa i canali erano relativamente pochi e le proposte decisamente minori, ora c’è una babilonia di proposte diverse. Inoltre sempre più giovani seguono più altri canali, come ad esempio video su YouTube, anziché rimanere davanti alla tv.
- Un normale e fisiologico calo di interesse dovuto proprio dalla particolarità della stagione. Non poche persone hanno visto come “falsato” il campionato, per il semplice fatto di non aver completato tutte le partite della regular season e di aver giocato in “campo neutro” e senza pubblico.

L’ultima ipotesi, del tutto personale, è che semplicemente i tempi cambiano e questa morbosa e allo stesso tempo normale abitudine dell’essere umano di fare confronti tra epoche diverse lascia sempre il tempo che trova. È stato così per il cinema, che ovviamente ha patito l’arrivo prima della tv, poi dei videoregistratori, infine di internet, per cui è impossibile paragonare gli spettatori di oggi in sala (almeno fino a prima della pandemia) con quelli di quasi un secolo fa. Ma può essere lo stesso per gli spettatori nel calcio, o per la vendita di album musicali (cd o vinili che siano), o il fascino che possono aver gli sport motoristici. Ogni attività ha avuto il proprio periodo d’oro, un tempo in cui per diverse concause l’interesse è stato maggiore, a cui segue un periodo di fisiologico calo a causa dei motivi più diversi. Ciò non significa che prima erano tutti bravi in quell’attività e poi sono tutti peggiorati, fa solo parte dei continui cambiamenti della società, che mai come in questo periodo sta cambiando tanto repentinamente.
L’NBA ha fatto qualcosa di incredibile riuscendo a portare a termine la stagione mantenendo in sicurezza giocatori e staff, i quali hanno offerto un grande spettacolo agonistico nonostante le enormi difficoltà. Ridurre il giudizio del successo solo in base al numero degli spettatori in tv è davvero fuorviante, riduttivo, e non dà il giusto merito a questo splendido campionato.


(Articolo a cura di Stefano Ruzza, trail coach e ultratrailrunner)

martedì 13 ottobre 2020

La difficile arte di sbagliare e ammettere l'errore

Durante la seconda giornata del campionato di Serie A di calcio ha fatto il suo esordio un ragazzo di 23 anni, Jacopo Segre, con la maglia del Torino. Pochi giorni dopo, Filippo Galli, ex difensore e dirigente del Milan, ha raccontato sulla propria pagina di Facebook come, a causa anche della propria valutazione negativa, dopo 10 anni nelle giovanili rossonere il giovane Segre non fosse stato confermato, finendo così nelle giovanili granata. Quante volte si è vista una tale ammissione di un errore da parte di un dirigente sportivo? Anzi, un ammissione di errore proprio in generale. Di solito la colpa è sempre di qualcun altro, oppure se l’errore non è così clamoroso si fa finta di niente e si lascia perdere. Filippo Galli avrebbe potuto non dire niente, visto che non molti avrebbero notato il particolare, invece no, ha ammesso di aver sbagliato la sua osservazione ai tempi, aggiungendo anche i complimenti a Segre per il traguardo raggiunto e per la perseveranza con la quale ha continuato a impegnarsi per meritarsi un posto in Serie A.

Non solo si può sbagliare, ma soprattutto si può sbagliare quando non si può prevedere il futuro. Pensando allo sport, quante volte si critica qualcuno per un risultato non raggiunto, dicendo “eh, ma non doveva fare quella gara”, “doveva allenarsi in modo diverso”, “doveva fare questo e quello”. Funziona così, se si raggiunge il risultato si viene esaltati, se non lo si raggiunge parte la facile critica su cosa si sarebbe dovuto fare. Tutti prendiamo decisioni, ogni giorno quasi in ogni momento. Molte di esse non sono nulla di importante: anche quando andare a fare la spesa, dove e cosa comprare sono decisioni da prendere. Poi ci sono decisioni più difficili e complicate di altre. Più gli effetti della decisione sono importanti e più è probabile ricevere critiche, anche quando le cose vanno bene. Quest’anno lo abbiamo ben visto. Parlare di errore di valutazione quando gli effetti di una scelta si vedono molto tempo dopo non è così difficile. Molto più difficile è ammetterlo, l’errore.

(Articolo a cura di Stefano Ruzza, trail coach e ultratrailrunner)

lunedì 12 ottobre 2020

"Non perdi mai. Vinci o impari"

1° ottobre 2020, prova di Coppa del Mondo di Mountain Bike, specialità Cross Country (quella olimpica, per intenderci). A causa dello stravolgimento dei calendari e della cancellazione di quasi tutti gli eventi della competizione, le prove si sono svolte tutte nella settimana a cavallo tra fine settembre e inizio ottobre a Nove Mesto (Repubblica Ceca), con 4 gare in tutto, 2 di short track (20' circa di durata) e 2 di distanza classica (pressappoco 1h30'). La primissima gara del circuito è stata una short track, che avrebbe poi delineato anche il posizionamento in partenza per la gara classica (nella mountain bike è importante partire davanti a causa dei percorsi stretti e tecnici, a differenza del ciclismo su strada).

In questo esordio non poche sono state le sorprese, sicuramente dovute anche all'anno particolare e all’esplosione di giovani promettenti. Nino Schurter, vincitore di 7 delle ultime 10 coppe del mondo (e 3 volte 2°), oltre al titolo olimpico e a ben 8 mondiali, non è mai stato uno specialista dello short track, adatto più ad altri bikers più esplosivi, ma si è comunque spesso difeso egregiamente. Però stavolta ha avuto qualche problema arrivando 29°. Il giorno dopo, quindi, 1° ottobre, sarebbe partito un po' indietro. Niente di troppo compromettente, il tempo per recuperare ci sarebbe stato, ma comunque meglio non perdere troppo tempo nelle retrovie imbottigliato nel gruppo. Dopo la partenza, infatti, in poche curve Schurter si è trovato nelle primissime posizioni. Già alla fine del primo giro (dei 7 previsti) però il campione del mondo di nuovo aveva perso diverse posizioni. Più passava il tempo e più il suo distacco dalla testa della corsa aumentava. Schurter era ben oltre la 20° posizione e il volto era affaticato e sofferente. Già sarebbero potute partire le ipotesi, o meglio, le prime speculazioni: l’età che avanza, giovani sempre più forti, scarsa forma, e tutto il resto. Io stesso ammetto di aver fatto pensieri simili mentre guardavo la corsa. Verso metà gara però Nino (come viene confidenzialmente chiamato da tutti gli appassionati di mountain bike) inizia a recuperare posizioni e appare sempre più brillante. La sua rimonta diventa sempre più entusiasmante e arriva a concludere la corsa al 4° posto battendo di pochi centimetri Avancini, rivale col quale non c'è particolare simpatia e di solito più veloce nello sprint.

Nel dopo gara sui propri canali social Schurter ha scritto una cosa verissima e sicuramente molto motivante. “Non perdi mai. Vinci o impari”. Aggiungendo poi la ormai classica e inflazionata “mai mollare", che è sì sempre più frase fatta, ma anche dannatamente reale. Nel resto della sua analisi della propria gara ha poi ammesso di aver spinto troppo all'inizio per recuperare subito posizioni, affaticandosi quindi più del dovuto e soffrendo nei successivi giri, i primi della competizione.

Anche “non perdi mai: vinci o impari” può sembrare una frase fatta o retorica, ma in fondo è davvero così che funziona. Non vincere (o non raggiungere un traguardo sperato e possibile) è in realtà un modo molto utile per imparare, forse il migliore. E visto quanto ha vinto Nino Schurter nella sua carriera, deve aver imparato moltissimo dalle poche sconfitte. Ha imparato anche dal 9° posto del campionato mondiale svoltosi il 10 ottobre su un percorso anomalo e che ha visto vincitore un po' a sorpresa il francese Jordan Sarrou, che finora come miglior risultato aveva giusto un 3° posto in una prova di Coppa del Mondo. La settimana successiva Nino Schurter ha mostrato il meglio di sè vincendo il Campionato Europeo. L'anno prossimo, il primo in cui Nino non indosserà la maglia iridata dopo 5 anni consecutivi, ma quella con bande azzurre del titolo europeo, c'è da scommettere che non si presenterà impreparato all'appuntamento olimpico.


(Articolo scritto da Stefano Ruzza, trail coach e ultratrailrunner)

giovedì 8 ottobre 2020

Lo sport dove in troppi si credono vincitori

All’ultimo Tour de France si è purtroppo ritirato dopo poche tappe Fabio Aru. I motivi non li sappiamo, nonostante le ovvie speculazioni: problemi fisici generici, condizione che non gli permetteva di reggere le ruote del gruppo nemmeno in pianura (questo nella tappa del ritiro, perché nelle precedenti aveva fatto una corsa quantomeno da corridore “normale”), oppure problemi psicologici. Sui social o sui siti sono partite le accuse: non si impegna, guadagna troppo, non ha la testa, sopravvalutato, bollito, eccetera. Ormai il mondo è così, il commento non è più “al bar”, o tra amici, o a casa, ma si dice tutto sui social o sulla sezione commenti dei siti d’informazione. Solo che le voci in questo modo girano più velocemente, gli insulti arrivano più facilmente anche agli stessi protagonisti, in questo caso uno sportivo, ma potrebbe essere un qualsiasi personaggio pubblico.

Il limite non esiste più, ormai l’insulto è gratuito. Un giorno ho avuto uno scambio di commenti sui social con una signora (che non so se avesse un passato sportivo, dalla sua pagina non si capiva, ma diciamo che non sembrava) che ha dato dell’arrogante a Elia Viviani, così, da non si sa quale pulpito e senza alcun motivo di partenza. Lui le aveva fatto qualcosa? No, semplicemente lui ha vinto un’Olimpiade (cioè, ripeto, un’Olimpiade), ha avuto altri successi abbastanza importanti negli anni successivi, quest’anno (chiaramente un anno tutto strano, con piani saltati e situazioni completamente nuove) ha fatto meno risultati per motivi che nessuno può sapere (una forma peggiore?, qualche malanno che ha rallentato la preparazione o ha ridotto le prestazioni?, gli altri che sono diventati più forti contemporaneamente alla sua età che avanza?), ed ecco che automaticamente il corridore che non fa più risultati è montato, o sopravvalutato, o non si impegna abbastanza (che poi, se l’obiettivo principale erano di nuovo le Olimpiadi e queste sono state rimandate all’anno prossimo, potrebbe anche essere normale trovarsi un poco al di sotto del proprio standard in attesa del prossimo anno). Oppure potrebbe allenarsi male o peggio di prima, è possibile, ma questo non lo si può sapere e di certo a stabilirlo non credo sia una tizia (o un tizio) qualunque che commenta da casa.

Di casi simili ce ne sono in quantità enormi: Vincenzo Nibali al Giro di Lombardia sofferente di crampi nel finale di corsa e poi gente da casa a suggerirgli sui social che avrebbe dovuto bere di più o alimentarsi meglio. Capito? Gente da casa che dice come bere e alimentarsi in gara a Nibali, il più vincente ciclista degli ultimi 10 anni e che corre in bicicletta ai massimi livelli da quando era bambino. Per non parlare delle critiche allucinanti che ho letto nei suoi confronti dopo il Mondiale di Imola che lo ha visto comunque tra i protagonisti. E si può già immaginare che se dovesse fare un ottimo Giro d’Italia alcuni suoi critici saliranno sul carro, oppure si lamenteranno del fatto che la concorrenza fosse scarsa, come hanno d’altronde spesso fatto i suoi detrattori, vai a capire perché poi.

In questi ultimi mesi ricordo anche critiche a Yeman Crippa (parliamo di atletica leggera) alla sua prima apparizione post lockdown in una gara sui 1500 metri, “colpevole” di aver corso troppi secondi oltre il record italiano e che col suo stipendio da poliziotto dovrebbe far di meglio, perché pagato dagli italiani. Anche qua, poco impegno, sopravvalutato, allenato male, pagato troppo, eccetera, le solite cose. Peccato che successivamente abbia fatto due record italiani (3000 e 5000 metri) e sfiorato proprio quello dei 1500. Eppure non è bastato, anche qua critiche, perché il record del mondo è lontano, gli altri paesi fanno meglio, il record era vecchio, era ora, può far meglio, così non si vincono le medaglie, eccetera eccetera (non considero nemmeno i commenti a sfondo raziale, non meritano citazione). Cosa simile anche per Filippo Tortu, ad esempio. Già dallo scorso anno sono iniziati i soliti commenti/insulti di rito, reo di non essere più migliorato dopo il sub 10” nel 100 metri del 2018: sopravvalutato, gonfiato, appagato, eccetera, oltre ovviamente ad accuse sull’avere come allenatore il padre (che quando funziona è geniale, come ad esempio per i fratelli Ingebrigsten, altrimenti è una cosa che non si fa, ma lo si dice quando va male, non quando va bene, cioè fino al 9”99 del 2018). Eppure, una finale mondiale lo scorso anno con tanto di 7° posto a Doha l’ha portata a casa. Ma non basta, gli altri vanno più veloce, così non si vincono le medaglie, e il solito bla bla bla.

L’elenco potrebbe andare avanti ancora a lungo prendendo da qualsiasi sport. Credo che non esista sportivo al mondo che non abbia detrattori, compresi quelli considerati i più grandi di sempre, quindi figuriamoci atleti comunque pazzeschi ma che hanno “l’onta” di non essere dei supercampioni da libri di storia.

Preferenze o simpatie fanno parte della vita, non esiste persona al mondo in grado di mettere tutti d’accordo, su qualsiasi tema, figuriamoci nello sport, ma il problema è quando si va oltre la simpatia o l’antipatia e persino oltre il tifo. L’insulto gratuito, il giudizio senza sapere nulla di quello che avviene ad un atleta, senza sapere cosa provi, quanto impegno abbia messo, persino quali siano i valori reali in un determinato sport (consideriamo ad esempio il doping, cosa a cui non voglio mai pensare ma che purtroppo esiste), spesso senza sapere le dinamiche stesse di una disciplina (un classico rimane il ciclismo, con le accuse di non attaccare in salita o cose simile, commenti fatti evidentemente da gente che non sa cosa voglia dire fare certe ascese a certi ritmi).

L’atleta è visto come un gladiatore. Il pubblico vuole lo spettacolo, il sangue, pretende la perfezione, vorrebbe gladiatori indistruttibili e probabilmente anche senza emozioni. Troppe persone che si definiscono tifosi non riescono a capire, anzi, non si sforzano nemmeno di pensare che un atleta è anche una persona che può avere alti e bassi, sia fisici che psicologici, e che l’insulto e il facile giudizio non è più tollerabile. Fa una certa impressione vedere come molti criticoni dei ciclisti di oggi rimpiangano Marco Pantani. È proprio l’eccessiva pressione che può rompere certe fragilità, com’è successo al campione romagnolo. Nessuno è indistruttibile, nemmeno gli sportivi professionisti, nemmeno i più forti al mondo. Ma troppi spettatori non se ne rendono conto e continuano imperterriti nel loro sport dell’insulto e della critica, lo sport più semplice e dove tanti possono essere campioni, dove troppi si credono vincitori e dove si perde solo una cosa: l’umanità.

(Articolo a cura di Stefano Ruzza, trail coach e ultratrailrunner)