Rientrare alle corse dopo quasi un anno di inattività non è
semplice, ma se ti chiami Alberto Contador e hai contribuito a scrivere la
storia del ciclismo questa difficoltà appare meno insormontabile. Era il 2012, quando
nella diciassettesima tappa della sessantasettesima edizione della Vuelta
Espana il madrileno ha mostrato al mondo di che pasta fosse fatto.
Che fosse un campione era fuori discussione, Vuelta, Giro e
Tour erano già nel suo palmarès, ma dopo la controversa squalifica nessuno si
sentiva più di scommettere su di lui. L’anno fermo, il morale basso per la
revoca di un Tour e un Giro d’Italia, quest’ultimo vinto dominando, e una
coppia di spagnoli tirati a lucido, Valverde e Rodriguez, sembravano ostacoli
troppo ardui da superare. Perfino per lui, abituato a soffrire, dopo aver
combattuto contro un aneurisma cerebrale che, nel 2004, sembrava avergli
compromesso vita e carriera.
Abituato a lottare, ma non al top della condizione. Abituato
a soffrire, ma non abbastanza da riuscire a battere Joaquin ‘Purito’ Rodriguez,
che fino a quel momento sembrava imbattibile. Contador ci provava tutti i
giorni, su ogni arrivo in salita, ma sembrava che non ci fosse nulla da fare.
Dopo tutta la fatica fatta per attaccare, Purito lo batteva sempre in volata,
rosicchiandogli secondi. Esasperante.
E così, quando meno te l’aspetti, Contador s’inventa un
attacco dove nessuno lo poteva prevedere, in una tappa difficile, ma senza
particolari pendenze. Le grandi montagne, le percentuali e la lunghezza sono da
leggenda, ma le salite pedalabili creano i distacchi.
A 53 km dall’arrivo Alberto attacca, danzando sui pedali con
eleganza. Rodriguez e Valverde non reagiscono subito, preferiscono attendere e
farsi tirare. Una scelta comprensibile, ma non sufficiente a contrastare il
ritmo di Contador. Il vantaggio cresce, Purito comincia a sbuffare, mentre la
sua maglia rossa inizia a perdere il colore, andando a sfumare, chilometro dopo
chilometro, quella del rivale in fuga: una crisi, nel giorno peggiore.
La tattica della Saxo-Bank è perfetta, lungo tutto il
percorso trova compagni in grado di dargli una mano, fino a 22 km dall’arrivo,
quando Alberto decide di rompere gli indugi e andare via da solo, in un tratto
in falso piano. Solo un corridore del gruppetto di fuggitivi resta con lui:
Paolo Tiralongo. Un amico, quasi un fratello.
L’italiano sa di non avere possibilità di vincere, perché negli
occhi del cannibale madrileno si legge tutta la determinazione di chi è pronto
a fare l’impresa di una vita, ma lo segue ugualmente. Lo aiuta. Lo porta ai
piedi dell’ultima salita. Si può anche militare in squadre diverse, ma certi
legami sono più forti di una casacca.
Il vantaggio si dilata sulla maglia Rossa, ma Valverde e
Froome, che nel frattempo avevano lasciato la compagnia di Rodriguez, sembrano
in grado di rimontare. Gli ultimi chilometri sono una lunga attesa, fissando il
cronometro e i chilometri all’arrivo. Contador continua a danzare, in un ballo
che sa di lotta contro il tempo. 2 km, 1 km, 500 m. La strada sembrava non
correre più, mentre a correre erano gli inseguitori. Braccato, ma vincente. Il
traguardo a braccia alzate, una rinascita. Più forte di tutto, anche delle
squalifiche retroattive.
"Quello che è
stato capace di fare Alberto è incredibile. Un attacco inatteso e tremendo.
Farò fatica a dormire stanotte" J. Rodriguez
Alberto Contador vincerà quella Vuelta soffrendo nelle
ultime tappe, concedendo a Valverde e Rodriguez qualche secondo, perdendo
qualche battaglia, ma portando a casa la guerra. La guerra di Contador, vincere
con testa, cuore e fantasia.
“Ho una filosofia
nella vita: quello che dovrà andare bene andrà bene”
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