Alberto Cova è uno degli atleti rimasti nella storia dei 10.000 metri ed è un simbolo dell'atletica italiana.
Alberto Cova è ricordato soprattutto per la conquista della medaglia d'oro alle olimpiadi di Los Angeles 1984.
Oltre a questo successo nel suo Palmares figurano anche: una medaglia d'oro mondiale, un oro europeo, un oro ai giochi del Mediterraneo e un argento agli europei indoor.
Una delle fatiche richieste a sportivi di primo livello consiste nella gestione della pressione e delle aspettative di tifosi e staff tecnico-atletico. Avevi delle strategie o delle routine di vita per affrontare questi aspetti?
In egual misura, seppure in termini numerici le sconfitte siano state più delle vittorie. Un aspetto cruciale riguarda l'analisi che delle vittorie e delle sconfitte viene fatta. Nella gestione delle emozioni, ripeto sempre che non bisogna mai essere troppo contenti o scontenti.
Da giovane ho vissuto l'atletica bene e divertendomi. Crescendo sono arrivato a vincere un titolo italiano giovanile a 18 anni, ho partecipato ai campionati europei giovani e mi sono messo in evidenza senza però vincere gare importantissime. Forse per questo motivo tutti parlavano di talenti rivolgendosi sempre ad altri atleti. Quando, però, ho vinto il titolo italiano under 20, e sono andato ai campionati europei mi son detto "gli altri saranno dei talenti, ma anche io sto facendo qualcosa di buono".
Non ci sono frasi che mi hanno caratterizzato in modo particolare, ma se devo risponderti ti dico una frase che mia madre mi diceva come battuta. Una frase non favorevole o propositiva, ma che mi ha spinto molto ad andare avanti. Quando mi vedeva arrivare a casa stanco morto dopo una gara o la sera dopo gli allenamenti mi ripeteva sempre "ma dove vai? Ma che vita fai? Ma cosa hai scelto di fare?".
Alberto Cova è ricordato soprattutto per la conquista della medaglia d'oro alle olimpiadi di Los Angeles 1984.
Oltre a questo successo nel suo Palmares figurano anche: una medaglia d'oro mondiale, un oro europeo, un oro ai giochi del Mediterraneo e un argento agli europei indoor.
Una delle fatiche richieste a sportivi di primo livello consiste nella gestione della pressione e delle aspettative di tifosi e staff tecnico-atletico. Avevi delle strategie o delle routine di vita per affrontare questi aspetti?
Considerando
che stiamo parlando di circa 30/35 anni fa, il sostegno psicologico agli atleti
non era una pratica consolidata e sinceramente non avevo o seguivo tecniche
particolari. La capacità di gestire la pressione e le emozioni a cui andavo
incontro era data dalla mia quotidianità.
Credo
di aver maturato questa abilità nel percorso che mi portava ad avvicinarmi
all'obiettivo e nella mia crescita durante gli allenamenti. Il condividere le
pressioni e le emozioni che questo percorso produceva, sia con lo staff
tecnico, che con chi faceva parte della mia vita, credo mi facesse bene e mi
desse l'idea che si stava costruendo un risultato di "gruppo".
Condividere con altre persone questa strada rende un atleta consapevole di ciò
che sta facendo e lo agevola nell'arrivare al meglio al grande evento.
Condividere le emozioni e le difficoltà con gli altri fa in modo che la
consapevolezza cresca nel tempo, facendo in modo che tu possa usufruire anche
delle tue doti mentali quando affronti una gara importante, che vale un titolo
o una medaglia.
In
una finale olimpica o mondiale, tutti gli atleti sono arrivati per vincere. Le
differenze tecniche date dalla condizione fisica o da possibili infortuni, sono
minime, quindi l'aspetto mentale diventa fondamentale. Quando entri nello
stadio è necessaria una predisposizione mentale che ti porta a pensare che
tutto quello che hai fatto porterà a dei frutti. Se entri nello stadio pieno di
dubbi, dando spazio alle incertezze, secondo me hai poche possibilità di
vincere.
La
testa conta sia durante l'evento, che lungo il percorso che ti porta all'evento
importante, perchè non sempre le cose vanno come vorresti e non sempre gli
allenamenti sono i migliori della tua carriera. Devi però mettere a fuoco che
quanto stai facendo porterà a dei frutti e su questo pensiero far leva per
ottenere il miglior risultato. La testa ha una grossa percentuale sui
risultati, perchè ti permette di sentire che la cosa che vuoi la puoi realmente
realizzare. Se ti predisponi in questo modo hai già buone possibilità di
ottenerlo.
Mi accennavi che nelle finali mondiali o
olimpiche tutti gli atleti si presentano per vincere. A tuo modo di vedere ci
sono degli aspetti che distinguono il buon atleta dall'atleta vincente?
Sicuramente
la gestione delle emozioni. Entrare in uno stadio con 70.000/80.000 persone è
una forte emozione difficilmente immaginabile. Se quando entri nello stadio
provi tensione stai già vivendo un momento di difficoltà.
Ci
sono atleti che fanno ottimi risultati durante la stagione, ma non riescono a
sopportare l'idea di essere protagonisti. Vengono assaliti dai dubbi
riguardanti l'essere capaci di affrontare una data situazione e dal saperlo
fare al meglio. Questi pensieri, che vai a fare in quelle frazioni di secondo,
ti riducono la possibilità di pensare a quello che stai facendo e che devi
andare a fare.
Mamede,
prima del mondiale di Helsinki dell'83, fece il record del mondo dei 10.000. Un
mese prima dei mondiali corse come nessuno prima di lui al mondo. Ai mondiali
però si ritirò, perchè non sopportò le tensione di dover dimostrare di essere
il migliore.
Io
cercavo di arrivare in crescendo agli appuntamenti importanti, avendo dei
riscontri sia dagli allenamenti, che dalle competizioni. Arrivavo alle gare con
delle certezze e su queste certezze non dubitavo. Chiaramente esistono anche
l'aspetto tecnico e tattico, ma quelli che corrono per vincere secondo me hanno
una predisposizione mentale favorevole al risultato.
Se dovessi scegliere di allenare un atleta
che si rivolge ai 10.000, quali aspetti mentali, oltre che atletici, andresti a
ricercare? Perchè?
Innanzitutto
partirei da quelle tecniche. Cercherei di conoscere tecnicamente il mio atleta.
Questo è stato l'insegnamento di Giorgio Rondelli, che mi ha allenato.
Sicuramente lui ha lavorato moltissimo su quello che era il mio talento tecnico
e su quelli che erano i miei punti di forza. Si parte sempre da una base
tecnica e poi man mano che si cerca di crescere nell'evoluzione tecnica, si va
anche a lavorare sull'aspetto mentale. Giorgio in questo era molto bravo.
Visto
che le situazioni impreviste capitano di continuo, credo che giocare
sull'imprevisto durante gli allenamenti, stimolando le capacità di adattamento
di un atleta a situazioni non conformi e diverse dalla routine. Credo questo
sia un bel lavoro mentale e permette di conoscere a fondo la capacità di
adattamento dell'atleta.
L'allenamento
solitamente si pianifica per un periodo di tempo di 15 giorni/3 settimane,
facendo dei microcicli. Al termine di essi si fanno delle analisi per capire
quanto è successo, magari si fanno delle gare per vedere la reazione
dell'atleta a livello tecnico e poi si torna a programmare, con l'intento di
guardare lontano. In questi microcicli si può far arrivare al campo l'atleta
convinto di fare una data sessione di allenamento e poi stravolgergli i piani,
anche con scuse banali.
Un
atleta in grado di adattarsi a situazioni diverse è un atleta con una marcia in
più. Pensa solo al fattore climatico. Il giorno prima di una manifestazione il
tempo è bellissimo, ma la mattina della gara quando ti svegli scopri che piove
a dirotto. Le caratteristiche tecniche possono venire messe in difficoltà da
una situazione climatica che tu non puoi ne prevedere ne modificare. Devi
quindi saperti adattare. Se in quel momento inizi a lamentarti del freddo,
della pioggia o che non ti trovi bene non è un buon indicatore. Da allenatore è
quindi importante iniziare a conoscere le reazioni dell'atleta, mettendolo in
difficoltà. L'analisi della gara avviene successivamente, però in quel momento
ti devi adattare.
Inoltre,
credo sia importante lavorare sull'immaginazione. l'atleta deve provare a
vivere negli allenamenti quello che poi potrà vivere nella competizione, non
solo in termini tattico-tecnici ma anche emozionali. Negli allenamenti più
tranquilli o in quelli defaticanti un atleta può immaginare se stesso che
taglia il traguardo e che alza le braccia al cielo. In una fase di
defaticamento, in cui senti le gambe che girano bene, provi a vivere le
emozioni che potresti provare in una vittoria.
Un
allenatore può aiutare dall'esterno un suo atleta proponendogli, al termine di
un ottimo allenamento, di fare un giro d'onore e di prendersi l'applauso e la
gratificazione di un pubblico immaginario. Questo lo aiuta a prefigurarsi ed
anticipare dei momenti e delle emozioni, avendole già vissute prima che venga
il momento importante, ma con un'intensità inferiore.
In quasi vent'anni di carriera e
soprattutto tra l'82 e l'84 hai vinto tantissimo. Credi che nella tua carriera
abbiano avuto un ruolo maggiormente importante i successi o le sconfitte?
In egual misura, seppure in termini numerici le sconfitte siano state più delle vittorie. Un aspetto cruciale riguarda l'analisi che delle vittorie e delle sconfitte viene fatta. Nella gestione delle emozioni, ripeto sempre che non bisogna mai essere troppo contenti o scontenti.
Devo
analizzare in concreto ciò che è accaduto, andando un pò oltre al risultato
fine a se stesso. Posso, ad esempio, aver vinto con tranquillità una gara, ma
ciò potrebbe essere dovuto ad una condizione non ottima dei miei avversari o al
fatto che che gli avversari stavano puntando altri obiettivi. Potrebbe anche
essere che quella gara era particolarmente importante per me e ci sono arrivato
ben preparato.
Anche
nelle sconfitte è importante comprendere cosa è accaduto nel concreto. Ho perso
perchè gli altri stanno andando più forte di me? Perchè la mia condizione non è
ottima? Perchè vengo da un periodo difficile o esco da un infortunio? Mettendo
insieme questi tasselli, facendo un'analisi chiara e onesta, senza cercare
alibi, ho la possibilità di capire dove mi trovo in quel momento e da quel
punto partire. Credo quindi siano importanti sia le vittorie che le
sconfitte.
Quando
ho vinto il primo meeting internazionale nel 1980 ero felicissimo, ma dal 80 al
82 ho passato dei momenti che non sono stati così felici. Non potevo dire a me
stesso che perchè avevo vinto un meeting internazionale avrei vinto gli europei
del 82. Ho mantenuto i piedi per terra, ho analizzato nel dettaglio quanto
accadeva gestendo i momenti positivi e
negativi e sapendo che l'anno successivo ci sarebbero stati i mondiali.
La
forza mia e la forza di Giorgio è stata quella di analizzare le cose come si
presentavano, capendo proprio perchè erano accadute in quel modo.
Se ti chiedessi come si costruisce un
successo cosa mi risponderesti?
Il
successo si costruisce con tanta fatica e tanto impegno. Sono due parole che i
miei allenatori, sia quello del settore giovanile Sergio Colombo, che Giorgio
Rondelli durante l'attività professionistica, mi hanno ripetuto spesso.
Entrambi mi ripetevano che se volevo fare la vita dell'atleta dovevo metterci
tanta fatica e tanto impegno. Questa è la base! Se non accetti la fatica e
l'impegno e non accetti il percorso connesso alla vita da sportivo
professionista non vai molto lontano!
Un
secondo punto fondamentale consiste nella pianificazione della tua vita, una
volta scelta la carriera da sportivo professionista. Nel momento in cui decidi
di cercare di ottenere i risultati che il tuo fisico ti permetterà di
raggiungere, devi essere consapevole che questa scelta è tua e la maggior parte
delle energie dovrai metterle tu, con fatica e impegno. Gli altri potranno
pianificarti gli allenamenti o seguirti a livello fisiologico, ma il resto
spetta a te.
Una
volta che tu ci sei, consapevole e responsabile della tua scelta, diventa
fondamentale avere intorno a te uno staff che lavora con te e per te. Tu sei
l'atleta, tu hai il talento da mettere in campo, ma devo dire che nella mia
carriera se non ci fossero stati un medico, un fisioterapista, una società
sportiva alla spalle, i compagni d'allenamento con cui condividevo la
quotidianità e con cui mi confrontavo, probabilmente non sarei arrivato dove
sono arrivato. Il talento non basta.
Da
solo non vai da nessuna parte. Tu puoi avere delle capacità e delle
potenzialità, ma se non c'è qualcuno che sostiene il tuo talento e ti aiuta a
metterlo in pratica, non vai da nessuna parte. L'allenatore che da fuori vede,
elabora e costruisce è importantissimo. Lo staff che ti aiuta a capire gli
aspetti muscolari e fisiologici ha un ruolo centrale nel permetterti di
comprendere cosa sta succedendo e permettendoti di stare sempre ad un livello
medio alto durante l'anno.
Una frase che appare in alcune tue
interviste è la seguente “non mi sono mai sentito in assoluto il più forte, ma
sapevo che avrei potuto dimostrarlo”. Cosa comporta questo approccio mentale
alla vita di un atleta?
Da giovane ho vissuto l'atletica bene e divertendomi. Crescendo sono arrivato a vincere un titolo italiano giovanile a 18 anni, ho partecipato ai campionati europei giovani e mi sono messo in evidenza senza però vincere gare importantissime. Forse per questo motivo tutti parlavano di talenti rivolgendosi sempre ad altri atleti. Quando, però, ho vinto il titolo italiano under 20, e sono andato ai campionati europei mi son detto "gli altri saranno dei talenti, ma anche io sto facendo qualcosa di buono".
Seppure
quando sono entrato nella categoria assoluta il passaggio sia stato molto
difficile, riuscivo a vedere che anno dopo anno c'era sempre una piccola
crescita e che le situazioni che pensavo di mettere in pratica si realizzavano.
A quel punto ho capito che gli altri potevano anche essere dei talenti, ma se
io poco alla volta fossi riuscito ad ottenere il meglio da me stesso potevo
costruirmi dei risultati. Questo perchè il mio meglio era alla pari con gli altri
e in alcune occasioni anche migliore.
Per
fare ciò mi sono analizzato. Ho accettato e preso consapevolezza che alcune
caratteristiche tecniche non le possedevo, ma ne avevo altre. Partendo da
questa consapevolezza ho cercato di comprendere quali situazioni nello
svolgimento di una gara mi favorivano in modo da saperle cogliere. Ci si allena
e ci si impegna per anni, ma gli eventi importanti durano un giorno soltanto o
solo momenti. In quel frangente devi essere pronto e non un minuto prima o un
minuto dopo.
Con
Giorgio Rondelli ci siamo detti che non eravamo capaci di fare alcune cose, ma
altre sapevamo farle benissimo. Quindi studiando gli avversari, analizzando
quali potevano essere le situazioni migliori e sapendo cogliere i momenti
favorevoli, anche noi potevamo dimostrare di essere bravi. E così è andata.
Può
sembrare semplice, anche se non lo è affatto. Ho cercato di mettere a frutto
quelle che erano le mie caratteristiche migliori, lasciando che gli altri
fossero talenti.
C'è stata una frase, detta da un genitore,
un allenatore o da una persona per te importante, che credi ti abbia
caratterizzato come atleta?
Non ci sono frasi che mi hanno caratterizzato in modo particolare, ma se devo risponderti ti dico una frase che mia madre mi diceva come battuta. Una frase non favorevole o propositiva, ma che mi ha spinto molto ad andare avanti. Quando mi vedeva arrivare a casa stanco morto dopo una gara o la sera dopo gli allenamenti mi ripeteva sempre "ma dove vai? Ma che vita fai? Ma cosa hai scelto di fare?".
Nel
'77 scegliere di fare l'atleta professionista invece di andare all'università o
invece di andare a lavorare, non era proprio così semplice. I miei vedevano nel
primo figlio la possibilità di un ritorno economico per la famiglia e un
supporto a quanto loro già facevano. Questo non vuol dire che io non portassi a
casa dei soldi, perchè mi sono sempre impegnato affinché qualcosa alla fine del
mese arrivasse, ma le 16 mensilità della banca erano un'altra cosa.
Mia
madre mi ripeteva in dialetto brianzolo "sei sempre in giro come
uno straccio". Però invece di deprimermi questa frase diventava per me uno
stimolo, perchè volevo dimostrarle che quello straccio sarebbe diventato
qualcosa di diverso e così è stato. Volevo dimostrarle che si sbagliava.
Ora
mia mamma non c'è più, ma anche se ha vissuto molto bene la mia carriera mi ha
sempre sottolineato quanta fatica abbia fatto e questa frase ha continuato a
ripetermela anche quando avevo 50 anni.
Oggi sei uno stimato professionista nella
formazione aziendale. In che modo lo sport e l'essere stato uno sportivo
professionista ti ha aiutato nel proseguo della tua vita lavorativa?
Devo
dire molto, se non quasi tutto. Le attività che ho intrapreso dopo l'atletica
hanno sempre avuto una connotazione sportiva. Diciamo che il significato dello
sport mi ha sempre accompagnato nella mia quotidianità. Oggi forse più che in
altre esperienze professionali, perchè racconto me stesso. Racconto la mia
esperienza e cerco di tradurla in contenuti formativi, dando degli strumenti
alle persone per vivere meglio la loro carriera professionale e perchè no, la
loro vita personale.
Credo
ci siano moltissime analogie tra il mondo dello sport e la vita di tutti i
giorni. Molti pensano che lo sport sia qualcosa di diverso da ciò che accade
nella vita quotidiana. Vedono quanto accade nelle grandi competizioni,
focalizzando la loro attenzione solo sulla parte finale della vita di un
atleta. Va invece detto che le analogie sono notevoli, perchè uno sportivo è
una persona come le altre che compie delle scelte. Ciò che cambia è l'emozione
connessa ai risultati ottenuti, emozione che poi condivide con gli altri.
Fornire
agli altri, attraverso il lavoro che svolgo con Samuele Robbioni, la
possibilità di utilizzare in modo proficuo le loro emozioni, di utilizzare in
modo pieno le loro capacità e quindi fare meglio, credo sia una cosa bella e
importante. Ormai svolgo questo lavoro da 10 anni e i riscontri che vedo sono
fantastici e mi arricchiscono come persona.
A livello di abilità, credi che la tua
vita da sportivo ti abbia temprato? Utilizzi le abilità sviluppare nella vita
da sportivo nella tua vita professionale?
Cerco
di mettere in pratica tutti i giorni quello che ho imparato. Una delle cose che
mi riesce meglio, forse per una predisposizione caratteriale o forse perchè
l'ho imparata dai miei genitori, trasportandola poi nello sport, è la cura dei
dettagli.
Quando
ero un atleta curavo nei dettagli ogni minima cosa. Avevo un'attenzione
maniacale su tutto, a volte, anche "rompendo le scatole" a chi mi
stava intorno. Quella era una delle mie caratteristiche fondanti. Credo questa
capacità mi sia stata utile sia nel comprendere gli avversari, sia nel decidere
le tattiche di gara. Tutti, giocando sul fatto che ero diplomato in ragioneria,
sostenevano fossi il "ragioniere dell'atletica". Credo che per
ottenere i risultati che ho ottenuto, non lasciare niente al caso ha giocato un
ruolo fondamentale.
Questo
aspetto mi è rimasto anche oggi. Se una cosa non mi piace devo dire la mia,
anche se il lavoro non mi riguarda completamente.
Ritieni che nell'atletica italiana sia
sufficientemente curato l'aspetto mentale o credi si possano apportare dei
miglioramenti?
So
che ci sono professionisti che curano l'aspetto psicologico e credo a livello professionistico
sia necessario. Non vedo però una conoscenza approfondita di cosa significhi
fare l'atleta da parte dei ragazzi che si affacciano a questo mondo.
Un
ragazzo di 16/17/18 anni che si avvicina a fare l'atleta deve sapere che questa
è una scelta professionale e di vita. In questi momenti è quindi molto
importante che ci sia un supporto nel compiere questo tipo di scelta. Bisogna
comprendere se una persona vuole veramente fare questa scelta. A volte un
ragazzo realizza qualche risultato e per inerzia continua a fare l'atleta senza
considerare che forse non gli piace particolarmente o che addirittura non è
particolarmente portato a questa professione.
A
complicare questa situazione si aggiunge che noi seguiamo solo chi da giovane
raggiunge dei buoni risultati e viene quindi considerato un talento. Purtroppo
in quella fascia d'età possono esserci dei talenti che non si sono ancora
espressi o potrebbe essere che un sedicenne che ottiene dei buoni risultati non
è portato per la vita da atleta. Facendo mente locale, molti degli sportivi che
nell'atletica hanno vinto le olimpiadi e che hanno più o meno la mia età
vengono da percorsi e scelte di vita compiute quando non erano assolutamente
certi di diventare campioni. Molti atleti italiani diventati campioni olimpici
in giovane età non sono stati considerati dei talenti nel periodo giovanile.
Cosa
significa poi avere talento? L'atleta di talento è uno sportivo capace di
costruire le proprie capacità e i propri punti di forza nel tempo. Agli atleti
va fatto scoprire il loro talento. Non basta dire ai ragazzi che hanno talento
e che diventeranno dei campioni. Devi farglielo capire lungo il percorso.
Sarebbe
importante lavorare su questa fascia d'età per accompagnare un numero maggiore
di persone ad un età matura in cui possono compiere una scelta importante e
difficile come quella di diventare uno sportivo professionista. Per vincere una
medaglia è importante che ci sia una base ampia e di livello medio-alto. Solo
in un contesto di questo tipo ci può essere un picco. Un supporto psicologico
sarebbe quindi importante e andrebbe affiancato al lavoro prettamente tecnico.
Considerando
poi che oggi un ragazzo oggi ha la possibilità di conoscere una miriade di
alternative alla vita sportiva, lavorare con questa fascia d'età diventa ancora
più importante. Un tempo quando trovavi un'attività che ti piaceva la portavi
avanti, perchè ci stavi bene e perchè l'avevi scelta. Non mollavi facilmente.
Oggi i ragazzi cambiano spesso idea, ma nello sport se non hai scelto ancora
una strada definita quando hai 22 anni diventa molto difficile.
Nessun commento:
Posta un commento