Il deserto è silenzio. Il deserto invita al silenzio. Il deserto è un luogo misterioso, non solo una distesa sabbiosa, ma anche un luogo dentro sé stessi, a volte minuscolo, a volte immenso. E come ogni luogo misterioso, dove esiste la necessità di cercare qualcosa, piccole o grandi risposte, la musica è un veicolo importante, se non necessario.
C'è un gruppo musicale che negli ultimi anni si è fatto portavoce dei disagi del popolo Tuareg e di tutta l'Africa settentrionale, attraverso sonorità che uniscono le tradizioni di quelle terre a quelle del rock blues occidentale, proponendo una musica che ha avuto apprezzamenti di tantissimi grandi musicisti, U2, Rolling Stones, Red Hot Chili Peppers, Santana, Thom Yorke, Peter Grabiel, Damon Albarn, e tanti altri. Questo gruppo si chiama Tinariwen, che nella loro lingua significa appunto "deserti". Questa loro miscela mostra un gran potenziale anche per essere utilizzata come sottofondo durante un'attività fisica, grazie alle loro ritmiche intense ed ipnotiche.
Originari del Mali, poi esiliati in Algeria, di nuovo tornati in Mali e ancora esiliatisi in giro per il mondo a proporre la loro musica, nel 2014 hanno dato alla luce "Emmaar", loro sesto album, registrato nel deserto californiano del Joshua Tree, proprio il luogo che ha ispirato un album degli U2.
L'album si apre con "Toumast Tincha": suoni psichedelici, dove si può percepire realmente il vento desertico, poi ecco basso e percussioni a formare un tappeto ritmico sopra la quale le chitarre elettriche si rincorrono, attraverso piccoli accenni di assolo tipicamente occidentali, mentre le melodie vocali nordafricane si intrecciano tra la voce di Ibrahim Ag Alhabib e i cori del resto del gruppo.
La successiva "Chaghaybou" ha un ritmo incalzante sin da subito, non lascia un attimo di respiro, con chitarre a fare da base per un basso stavolta più dinamico, con il cantato del co-leader Eyadou Ag Leche. Più lentezza su andamenti blues per "Arhegh Danagh", ma non per questo meno suggestivi e affascinanti o meno invitanti dal punto di vista ritmico.
"Timadrit in Sahara" riprende un solido dinamismo, con chitarre sempre protagoniste tra i vari passaggi vocali. Ancora fascino e poesia desertica in "Imidiwan Ahi Sigdim", un blues dai toni orientali e un taglio mistico suggerito da accordi tenuti per lungo tempo, caratteristica principale anche della successiva "Tahalomot", fatta di accenni psichedelici, perfettamente incastonati nelle riconoscibili origini del gruppo.
In "Sendad Eghlalan" sembra di sedersi intorno ad un falò nel deserto, dove accompagnare il rituale del tè con un poetico rock-blues. Per ritrovare ritmo ed energia ci vuole "Imidawanin ahi Tifhamam", con percussioni incessanti e chitarre che ancora si seguono, a metà strada tra melodie occidentali ed orientaleggianti.
Non da meno "Koud Edhaz Emin", che invita movimenti del corpo in modo naturale, balli o corse che siano, proponendo la liberazione dell'anima attraverso il movimento. Bellissima, e a suo modo dolce, "Emajer", con chitarre liquide a invitare alla speranza, alla fiducia, e percussioni sempre presenti e dall'andamento rapido. L'album si chiude con l'unica traccia acustica, "Aghregh Medin", con sonorità più vicine alla semplicità degli inizi del gruppo tuareg, ma non per questo meno curata o affascinante, e l'incedere percussionistico sempre pronto ad invitare ad alzarsi e muoversi.
Un album meraviglioso di un gruppo che ha una storia da raccontare, sfuggito da dittature e guerre, che con la musica sta tentando di far conoscere al mondo le difficoltà e le speranze di quella terra stupenda e svolte crudele che è l'Africa desertica.
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