martedì 11 agosto 2015

Dialogo col campione: Davide Frattini


Davide Frattini è un ciclista professionista italiano, nato a varese nel 1978, che corre nelle fila della formazione americana UnitedHealthCare Pro Cycling Team.

Nel 2001 vince il Giro d'Italia dilettanti, passa professionista nel 2002 e nel 2004 emigra prima negli Stati Uniti e poi in Canada, per continuare la sua carriera oltre oceano.

Sul suo profilo Twitter si presenta così: "padre, marito, ciclista professionista e ciclocrossista nel tempo libero"



Gli italiani vengono spesso descritti come un popolo di creativi, disorganizzati, appassionati, ricchi di gusto estetico, edonisti e molto altro ancora. Come le tue radici culturali, italiane e varesotte, ti caratterizzano in qualità di sportivo professionista, in gara e in allenamento?

Quando corro ci sono un sacco di paesi rappresentati in gruppo. Ho colleghi italiani, tedeschi, australiani e di ogni parte del mondo. In quei momenti mi accorgo come ogni paese abbia un suo modo di fare e come questo venga trasmesso anche pedalando.
Noi italiani siamo più creativi, quando corriamo da “italiani” lo trasmettiamo, e penso che questo discorso valga anche per me. Pensa a Bettini e Nibali, scattano e vanno all’attacco senza essere matematici, in modo istintivo. Atleti di altri paesi sono più metodici negli allenamenti e nelle gare, come ad esempio gli inglesi.
Certo, questo in corsa può aiutare, mentre altre volte non aiuta.


Riusciresti a spiegarmi quando la creatività aiuta e quando può danneggiare?

Il ciclismo non è matematica. A volte hai la possibilità di fare delle performance proprio perché segui l'istinto, che ti permettere di prendere di sorpresa gli avversari. Altre volte, quando il terreno o la corsa richiedono unicamente di seguire una tattica, non c’è molto spazio per la creatività. La creatività in quei casi non può esserci.

Da ormai più di 10 anni hai scelto di emigrare prima negli Stati Uniti e poi Canada, dove ora vivi stabilmente e ti sei sposato. In che modo inserirti nel tessuto culturale nordamericano del “Yes we can”, del “volere è potere” ti ha influenzato come ciclista? Il tuo modo di concepire la bici  è cambiato da allora e in che modo?

Quando inizialmente mi sono spostato a vivere negli USA ho notato che molti studenti, della mia età o addirittura più giovani, non vedevano l’ora di iniziare o terminare il college per allontanarsi da casa. Vedevo molti miei colleghi che vivevano come uno stimolo l'allontanarsi dalla famiglia, mentre noi italiani eravamo abituati a stare vicino a casa ed essere chiamati mammoni. Ho notato pero’ che questa abitudine è meno evidente nelle nuove generazioni.
Credo che queste esperienze ti facciano crescere molto, come anche io ho potuto crescere molto quando da U23 sono andato a correre in una squadra di una regione diversa da quella di origine. Ho iniziato a vivere per conto mio, “farmi” il letto, cucinare, gestire le spese e sono diventato più responsabile. Poi, quando ho avuto la possibilità di correre fuori dai confini nazionali credo di aver avuto meno “home sick”, nostalgia per dirla all'americana, e mi è pesato un po’ meno. Vedendo ragazzi americani o australiani che viaggiavano per correre mi sono detto “se l’hanno fatto loro, posso farlo anche io”.
Facevo 5 mesi lontano da casa, tornando in Italia a novembre e dicembre, e questo periodo, seppure bellissimo, mi bastava. Non è per tutti così, ho notato che altri ragazzi, con poca esperienza lontano da casa, soffrivano a stare 2 mesi in nord America.

Muovendoci nel mondo ci allontaniamo fisicamente da alcune persone care, che portiamo però sempre con noi nei nostri ricordi. Se ripercorressi i tuoi anni di costruzione di uomo e di sportivo ci sono degli adagi, dei motti o modi di dire, che ti ripetevano i tuoi genitori, i tuoi nonni, allenatori o persone significative che ti hanno influenzato in modo particolare in quanto sportivo? 

Ritengo che il ciclismo e la professione di ciclista richiedano una dedizione costante. Madre natura può darti delle doti atletiche che ti facilitano, ma questa è una professione in cui devi impegnarti. Devi dedicare spazio per l’allenamento, insomma “devi stargli dietro”.
Mi torna alla mente una frase di un mio vecchio allenatore, che ripeteva che “il sacrificio paga sempre”. Da quando sei juniores, per tutta la tua carriera, se non ti alleni e non pratichi non puoi migliorare. Questa convinzione mi ha portato sempre ad allenarmi con costanza e metodicità e credo valga sia dal punto di vista sportivo che lavorativo. Qui in Canada lo tradurrebbero con “never give up”, "non mollare mai".
Soprattutto nelle corse a tappe puoi accorgerti come un giorno tu stia benissimo e il successivo ne hai 50 davanti. Se però vai oltre la giornata nera, capisci che esiste anche la possibilità di riprenderti. Qualunque sia il mio futuro lavorativo, credo che questo modo di affrontare la vita farà parte di me.

Le gare e la vita sportiva ti costringono a restare per molto tempo lontano dalla tua famiglia. Come questo influenza le tue performance atletiche? Questo ti sprona a dare di più; ti coinvolge il sapere di essere visto in televisione; ti toglie una carica importante … in che modo ne vieni influenzato in modo positivo o negativo?

Credo ci sia un lato emotivo, che possa farti dare qualcosa in più. Damiani, uno dei miei direttori in UnitedHealthCare, direbbe “Testa, cuore e gambe”. La testa conta parecchio, come contano il cuore e le gambe e tutte e tre devono essere in sintonia.
Mi accorgo che  se corro sulle strade di casa, e la corsa di casa per antonomasia è la Tre Valli Varesine, ho uno stimolo in più. Sento di avere uno stimolo in più anche se la mia famiglia viene di persona a vedermi, mentre non sento un effetto particolare se mi vedono in TV.  

Quando ti trovi a gareggiare in Europa o nel mondo, lontano dalla tua famiglia, ci sono dei pensieri felici che ti accompagnano in gara e che ti aiutano a sopportare le fatiche e gli sforzi che un ciclista si trova ad affrontare in gara?

C’era un mio collega che diceva “quando sei a tutta, guardati a fianco e scoprirai che qualcuno soffre più di te”. Sai esistono dei giorni o addirittura dei periodi in cui cadi o la forma non arriva e allora vai a cercare un fattore psicologico, delle motivazioni interne che ti aiutano a tenere duro, a rimanere attaccato al gruppo di cui fai parte.
Il ciclismo è uno sport in cui non puoi nasconderti, ma se sai che hai lavorato bene e ti sei allenato bene, facendo nel modo migliore la tua preparazione, mentalmente trovi la forza per superare questi frangenti difficili, perché ti convinci che hai fatto tutto il possibile per essere competitivo. Io quando so che ho lavorato bene, l’avvicinamento alla gara è proceduto bene con buone sensazioni in allenamento, credo di essere un pelo avvantaggiato nei momenti di difficoltà.
Inoltre, in questa fase della carriera mi sono convinto che faccio fatica nelle partenze forti, ma dopo un centinaio di km sento di riuscire a sbloccarmi. Non so se scientificamente sia provato che l’endurance aumenta con l’età, ma quando mi trovo in difficoltà nelle prime fasi della corsa ci penso e mi dico che se tengo duro dopo andrò più forte. A volte mi basta tenere duro le prime 2 salite nei primi 50 km e infatti poi mi sembra di andare meglio. Forse sara’ un fattore psicologico, ma come dicevamo nella precedente domanda è la testa che comanda le gambe.

Spesso ci si riferisce al ciclismo come ad uno sport individuale in cui la squadra è essenziale per raggiungere gli obiettivi. In che modo la tua storia personale, le vittorie ottenute, le sconfitte con cui sei confrontato, arricchiscono o possono accrescere il valore della squadra di cui fai parte? Ci sono degli insegnamenti, che da ciclista ormai esperto, sei solito ripetere ai più giovani?

Ho avuto la fortuna di ricoprire diversi ruoli lungo tutta la mia carriera ciclistica da Juniores ad oggi. Sono stato leader e gregario e questo per me è stata una grossa fortuna. Ai giovani dico che ricoprire i diversi ruoli è un’opportunità che la squadra ti può dare e che fare il gregario ti può rendere un leader migliore.
Non sempre il leader sa trasmettere i propri pensieri in modo positivo, mentre è importante che i gregari si sentano coinvolti e che sappiano trovare degli stimoli per riuscire a dare il 100%. Secondo me, se un leader ha in precedenza ricoperto un lavoro di gregario sa meglio comprendere lo stato mentale di chi gli sta intorno e si rivolge loro sapendo proporgli degli stimoli.
Inoltre, capita durante una corsa di vivere momenti di stress in cui devi scegliere una tattica differente da quella stabilita prima della gara. In quei momenti aver ricoperto ruoli diversi ti permette di saper capire meglio la situazione e ti fornisce maggiori capacità di trasmettere il tuo pensiero in fasi cruciali.

Incontrandoci di persona, mi hai raccontato che ti stai formando all'interno di un percorso di coaching e che ti piacerebbe lavorare con bambini o ragazzi in ambito ciclistico. Secondo te quali sono le doti psicologiche e caratteriali da coltivare in un piccolo ciclista o in una persona che si rivolge alle due ruote e perchè?

L’importante è di farli crescere con l’idea di divertirsi e sapendo ascoltare. Molte volte ho incontrato giovani con un grandissimo talento, che si perdono prima del professionismo perché non hanno saputo far fronte ai passaggi di categoria e alle difficoltà che si presentano durante le carriera ciclistica.
E’ importante far capire ai giovani che anche se vinci tutte le corse da Juniores arriverà un momento in cui non riuscirai più a vincere facilmente come prima. Questi sono momenti critici in cui ragazzi di 16/18 anni decidono di smettere perché non vincono più.
Il ciclismo richiede molto impegno e dedizione, che soltanto associato alla passione può farti continuare per parecchi anni. Lavorando su questi aspetti nella fase di costruzione di un corridore, credo si possano ridurre gli abbandoni, sostenendo gli atleti a continuare con gli allenamenti anche in futuro. 
Chiaramente non tutti diventeranno professionisti, però insegni a un ragazzo a portare avanti ciò che ha iniziato e a lavorare duro per gli obiettivi che si è prefissato. Per questo non sarebbe male coinvolgere su questo argomento anche le famiglie. Questi insegnamenti potrebbero inoltre servire loro anche in un ambiente lavorativo diverso da quello ciclistico. 

Ascoltandoti mi sono domandato cosa sia la passione per un ciclista, anche quando questo diventa il tuo lavoro….

Credo che la passione sia qualcosa che ti aiuta a superare i momenti di difficoltà, è uno stimolo che ti aiuta a continuare in ciò che fai superando i momenti problematici.
Quando non hai voglia di fare le ripetute in salita, non hai voglia di uscire in bicicletta, ti permette di continuare il tuo lavoro in modo efficace e anche divertendoti. 

Nessun commento:

Posta un commento