martedì 21 giugno 2016

La partita della morte. Quando vincere o perdere faceva la differenza.

9 Agosto 1942.
Il caldo soffocante dell’estate Ucraina.
Solo due settimane prima, il 22 Luglio, i nazisti diedero il via alla deportazione degli ebrei del ghetto di Varsavia. La tragedia della guerra in ogni anima, mentre sullo sfondo il mondo devastato dall’uomo guardava con le lacrime agli occhi la follia dell’odio.
Kiev era semi deserta, nelle strade poche persone avevano il coraggio di girare. Troppa la tensione. I nazisti occupavano la città con il sostegno dei nazionalisti ucraini, anti-sovietici e filo-nazisti.
Odio e amore, guerra e pace. Guardie e prigionieri. Diversi, ma con qualcosa in comune. Una passione che supera le barriere dell’odio, l’amore per lo sport. L’evasione dalla crudeltà opprimente.
Nel giugno del 42’ i tedeschi, con l’appoggio di ungheresi, romeni e i nazionalisti, decisero di dare vita ad un torneo calcistico che avrebbe visto impegnate 6 squadre. 4 formate da truppe occupanti, una, la Ruch, formata da ucraini ‘amici del Reich’ e un’ultima composta da prigionieri, la Start, inserita per dare il modo ai tedeschi di mostrare la loro superiorità.


La rosa della Start era un misto tra giocatori della Dinamo e della Lokomotyv Kiev. Giocatori veri, debilitati dalla fame e dai turni massacranti, schiavi nel giogo nazista, ma pur sempre calciatori.
Kordik e Trusevich, due ex giocatori della Dinamo, ne erano alla guida.
Fu proprio quest’ultimo a trovare le divise, in un vecchio magazzino. Rosse. Una provocazione.
Iniziato il torneo con la certezza di vincere, i tedeschi dovettero fare i conti molto presto con la realtà di un gioco che non conosceva la politica, almeno allora. Troppo forti gli ucraini.
Le prime partite sono umilianti per il Reich.
7-2 contro la Ruch.
6-2 contro gli ungheresi.
11-0 contro i romeni.
Nemmeno i tedeschi dell’aviazione poterono fare nulla di fronte al talento della Start: 6-0.
Una vittoria cristallina che superava i confini del campo di gioco, tanto da fare giocare le partite nello stadio Zenith, più piccolo e oggi ribattezzato ‘Start’, per non dare troppo risalto alle sconfitte. Troppo tardi.
La Resistenza ritrovò vigore, morale e forza di lottare. La tensione che stava scemando in rassegnazione, comincia a trasformarsi in ardore.
I tedeschi organizzarono subito la prima rivincita. Per l’occasione fu chiamato il Flakelf. La più forte compagine militare.
Non bastarono neppure loro.
La Start s’impose 5-1. Le parate di Trusevich, i gol di Melnik.
Il regime iniziava a vacillare.
Ogni goal, ogni giocata, ogni singola volta in cui i giocatori della Start si rialzavano, era un simbolo di speranza per i connazionali.
La Resistenza degli occupati. Il terrore di ogni dittatura.
La scelta del Reich è radicale.
Seconda rivincita. Si cambia scenario. Si cambia squadra.
La formazione tedesca viene potenziata con i migliori ex giocatori tedeschi, ancora in grande forma e rallentati nella carriera calcistica solo dalla guerra in corso. I muri sulle strade di Kiev, e non solo, vengono tappezzati di manifesti. L’elogio dell’impero tedesco. L’elogio della follia.
Non era più una partita di calcio. Era lo spot della forza nazista. Doveva essere il simbolo dell’inferiorità estera.


Il 9 agosto, solo 3 giorni dopo la partita precedente e vistosamente debilitati da un trattamento sempre meno ‘amichevole’, i ragazzi di Trusevich erano nuovamente in campo.
1942. La paura di fare uno sgarbo, di umiliare i nazisti, regnava nei giocatori, la consapevolezza che vincere avrebbe potuto significare morire era un tarlo nella loro psiche.
L’arbitro, colui il quale avrebbe dovuto vegliare sulla condotta dei 22 in campo, era un SS. Tutto contro.
Prima della partita, il saluto di rito. Il braccio alzato. ‘Heil Hitler’. Trusevich rispose non piegandosi al saluto per il Fuhrer, ma alzando la voce: ‘Fitzcult hurà!’. ‘Viva la cultura fisica’. Il saluto sovietico in queste occasioni. Non era una dichiarazione di guerra, ma la conferma che la sua squadra non avrebbe lasciato la vittoria ai tedeschi. Non senza lottare.
Sugli spalti era pieno di soldati in divisa, armati, entrati per sostenere i colleghi. Solo donne, vecchi e bambini a tifare per i ragazzi in rosso.
La ‘Germania’ passò in vantaggio. Su una mischia Trusevich venne atterrato, mentre la palla rotola in rete. Non c’erano moviole, e nessuno protestò. 1-0.
Sembrava finita. Perdere per salvare la propria vita.
E invece.
La Start non si arrese e, dopo pochi minuti, trovò il pari con un goal di Kuzmenko, la seconda punta veloce e molto tecnica, su punizione. 1-1.
Il pareggio regalò nuovo mordente ai giocatori e Goncharenko si esaltò. Prima una serpentina conclusa con un tocco morbido a portare sul 2-1 i suoi, poi una mezza rovesciata per far rientrare sul 3-1 i prigionieri.
Lo stadio ammutolito.
L'orgoglio degli oppressi.
Il Reich non poteva permettersi una simile umiliazione.
Negli spogliatoi degli ucraini, relegati in una latrina, entrò un generale delle SS a minacciare Trusevich e i suoi. Vita o morte. Sconfitta o vittoria.
Le minacce punsero la Start. Al rientro i nazisti trovarono rapidamente il pari, ma gli avversari, pur non volendo, segnarono altri 2 goal.
Finì 5-3 per la Start.
Non ci fu la liberazione dei prigionieri, non ci fu l’invasione di campo di ‘Fuga per la vittoria’. Al fischio finale i giocatori ucraini si resero conto di aver firmato la propria condanna a morte.
Non appena finita la partita ricominciò la rappresaglia.
Pochi giorni dopo, il primo ad essere preso fu Nikolaj Korotkikh, un ufficiale della polizia segreta. Arrestato il 6 Settembre, morì venti giorni dopo, fucilato.
Della squadra di Trusevich se ne salvarono in pochi. Vennero catturati e torturati uno alla volta.
Goncharenko e Sviridovsky riuscirono a salvarsi, ma per gli altri non ci fu nulla da fare.
Kuzmenko, Klimenko e Trusevich vennero fucilati insieme, la mattina del 24 Febbraio 1943.
Si racconta che, prima che i soldati aprissero il fuoco, ‘Truse’ urlò:
-Krasny sport ne umriot!
Lo sport rosso non morirà mai.
Un ultimo sgarbo ai nazisti. L’ultima affermazione di chi ha preferito alzare gli occhi, invece di abbassare il capo.
Non era una semplice partita, ma il simbolo di chi ha trovato, nell'ora più buia del mondo, il coraggio di dire no.
Quando il calcio era veramente una questione di vita o di morte.

ARTICOLO A CURA DI:


Nessun commento:

Posta un commento