martedì 28 giugno 2016

Jesse Owens. 45 minuti per cambiare il mondo.



Quanto tempo occorre per cambiare la storia?

C’è chi impiega anni, chi settimane. Ci sono persone a cui occorrono intrighi di palazzo, altri a cui basta stare fermi, magari immobili davanti alla forza di un carrarmato.
Ci sono storie e storie. Lo sport è spesso considerato, e nella maggior parte dei casi lo è, nient’altro che un passatempo. La distrazione da ciò che è più importante.
Ci sono, però, personalità che travalicano il loro confine di sportivi per immergersi a tutti gli effetti nella storia. Il XX secolo racconta di guerre e media. Racconta di muri che si creano e si abbattono. Racconta di Adolf Hitler e delle dittature fisiche e morali, ma racconta anche di Jesse Owens e della lotta di un singolo uomo contro il sistema.

1935.
Un mondo in profondo mutamento si avvia verso la seconda Guerra Mondiale, il regime hitleriano continua a perseguire gli ebrei, anche se lontano dalle cronache estere, lontano dagli interessi di chi sapeva, ma non muoveva un dito. La legge di Norimberga impediva ai giudei di avere la cittadinanza tedesca, la guerra di Etiopia entrava nel vivo e il mondo piangeva la barbarie di una concezione storica ancora legata all’imperialismo.
Negli Stati Uniti, dove la schiavitù era stata estirpata, vigeva ancora la segregazione razziale. La convinzione che un colore diverso della pelle potesse essere fondato sul concetto di superiorità. Dai ceti bassi ai dirigenti, così lontani, ma incredibilmente vicini tra loro. Ideali non così lontani, a ben vedere, dalle idee nazifasciste.
Lo sport è diventato, in questo mondo, una delle poche possibilità di unione. L’unico modo perché neri e bianchi potessero esultare insieme, sotto un’unica bandiera. Sotto un unico credo.
Jesse Owens divenne involontario protagonista di una delle più belle storie di riscatto sociale.
Povero. Di colore. Nessun diritto. Figlio del degrado e della Grande Depressione.
Un futuro di dolore che sembrava già scritto. Il suo, come quello di milioni di ragazzi afroamericani.
25 maggio 1935. Le Olimpiadi di Berlino ad un passo, il ‘Big Ten Meet’ di Ann Arbor, una competizione universitaria, in corso. Il Michigan, lo sfondo alla sua favola iniziata in Ohio.
James Cleveland, il suo vero nome. Jesse, il nome che gli venne ‘regalato’ da un suo professore, che non riusciva a capire il suo slang e fraintese il suo ‘J.C.’.
Quanto tempo ci vuole a cambiare la storia? Spesso anni, ma in certi casi, in questo caso, bastarono 45 minuti per cambiare l'atletica.
15.15. Il tempo correva per tutti, non per Jesse. In appena 9”3 vinse le 100 yard. Record mondiale.
15.25. 8,13 metri nel salto in lungo. Secondo primato mondiale in pochi minuti.
15.34. Le 220 yard, i nostri 200 metri, si inginocchiano ad un nuovo padrone. Jesse li percorre in 20”3. Terzo primato mondiale.
16.00. Le 220 yard ad ostacoli non possono fare altro che assoggettarsi a lui. 22”4. Il quarto record.
I 5000 presenti non credevano ai loro occhi. La storia dell’atletica riscritta in 45 minuti da un ragazzo afroamericano.

1936.
Le Olimpiadi di Berlino si svolgevano in un clima surreale. La guerra a un passo. Il mondo immaginava, sospettava, forse sapeva, i crimini del Reich, ma stava zitto. Gli Stati Uniti, fuori dalle contese, guardavano da spettatori interessati il susseguirsi degli eventi.
Jesse era il simbolo sportivo di una nazione. Più veloce del vento, prima del risuonare delle armi. Un uomo di colore, sorridente, di fronte al leader ‘razzista’.
4 gare. 4 medaglie. 4 ori. 2 Record mondiali. 1 Record Olimpico.
Un oro, nella staffetta 4x100, in bilico per la volontà di Owens di lasciare gareggiare i ragazzi ebrei-americani, lasciati fuori dalle competizioni fino a quel momento. Non gli fu concesso dalla sua federazione, desiderosa di non concedere medaglie.
Il mondo in silenzio, gli spalti increduli.
Hitler a fissarlo. Gli sguardi si incrociano, il dittatore tedesco accenna un saluto e va via.
La stampa ricamerà su questa ‘rivalità’. Sulla mancata stretta di mano.
Ipocrisie e illazioni. Sarà proprio Owens a denunciare la finzione della stampa.
“Dopo essere sceso dal podio del vincitore, passai davanti alla tribuna d'onore per rientrare negli spogliatoi. Il Cancelliere tedesco mi fissò, si alzò e mi salutò agitando la mano. Io feci altrettanto, rispondendo al saluto. Penso che giornalisti e scrittori mostrarono cattivo gusto inventando poi un'ostilità che non ci fu affatto.”
Non solo. A chi gli chiese informazioni sulla mancata stretta di mano per la premiazione, Jesse rispose in maniera onesta, quasi brutale.
“Vero, Hitler non mi ha stretto la mano ma fino a qui non lo ha fatto neanche il presidente degli Stati Uniti.”

Uno stato grande, potente, ma ancora in preda alle sue contraddizioni.
L’odio razziale che spinse gli USA sull’orlo di un baratro.
Jesse Owens non fu solamente l’unico, fino all’avvento di Carl Lewis, in grado di vincere 4 medaglie d’oro nella stessa olimpiade. Fu anche il simbolo della forza dell’uomo, l’emblema del merito che vince sull’odio.
“Owens ha superato le barriere del razzismo, della segregazione e del bigottismo mostrando al mondo che un afro-americano appartiene al mondo dell'atletica.”
Gerald Ford gli rese omaggio così.
Un ragazzo di colore, povero e magrolino, dimostrò al mondo che essere grandi non è questione di pelle, ma solo di cuore.


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