Calcio e bombe, di solito, le immaginiamo in bianco e nero,
ambientati in una cornice europea, magari durante la Seconda Guerra Mondiale,
un binomio relegato a una parte della nostra storia, come se la violenza
associata allo sport, da quel momento in poi, fosse diventata solo una
questione di hooligans.
Eppure calcio e bombe non sono solamente guerre mondiali,
Europa e Razzismo, ma anche Centro America, guerre civili e guerre di civiltà,
nonostante di civile avessero ben poco.
C’è un conflitto, denominato appunto ‘La Guerra del Calcio’, durato dal 14
Luglio al 18 Luglio 1969 tra Honduras ed El Salvador. Un conflitto tra i più
sanguinosi del secondo dopo guerra, il quale ha causato 5700 morti e 50000
sfollati.
Siamo nel 1969 e, sulla strada che avrebbe dovuto condurre a
Mexico 1970 (il Mondiale di Italia-Germania 4-3), Honduras ed El Salvador si
stavano giocando l’accesso alla fase finale. Due nazioni ai ferri corti, due nazionali
tra bombe d’odio e bombe vere.
Andata e ritorno. Da brividi. Il calcio, come potete immaginare, non era altro
che una banale scusa per prendere di mira i nemici. Si comincia in Honduras, l’8
Giugno. I Salvadoregni cercano di restare il meno possibile nel territorio
nemico, ma non abbastanza da non subire insulti o manifestazioni di protesta,
la sera prima e il giorno della partita. Gli spalti, durante l’incontro, sono
infuocati, l’Honduras vince di misura, con un goal a pochi secondi dalla fine,
e gli avversari devono fuggire.
L’animosità è alle stelle, la sconfitta viene vista come un
disonore tale da portare al suicidio una giovane figlia di un generale dell’esercito.
L’episodio, che adesso vedremmo come la follia di una ragazza, ai tempi fu
strumentalizzato per aizzare la folla. Il popolo voleva vendetta, la nazionale
honduregna, al ritorno, fu costretta a dormire sul tetto dell’Hotel per evitare
di essere assaltata dal popolo.
Notti insonni all’aperto, il terrore addosso e l’omicidio dell’accompagnatore della nazionale, con la voglia di tornare a casa il più
presto possibile, non aiutano a giocare a calcio. I calciatori vengono scortati
allo stadio addirittura nei carrarmati. L’Honduras viene preso a pallonate per
90’, perde 3-0 e costringe le due squadre a disputare un terzo match per
stabilire il vincitore. La civiltà sembrava ormai morta.
Il campo neutro dell’Estadio Azteca di Città del Messico fu
lo scenario di nuovi scontri tra le tifoserie. 2-2 alla fine dei tempi
regolamentari, la simbolica fine di una partita giocata da calciatori, ma
pilotata dai governi. Ai supplementari, El Salvador conquistò l’accesso alla
finale contro Haiti, nel caos della guerriglia. Gioia triste dei giocatori,
cercando la via di fuga più breve e consapevoli che lo sport, quello vero, è un’altra
cosa.
L’esito non soddisfò l’Honduras, il cui Governo ruppe
definitivamente il dialogo con quello di El Salvador. La guerra era ormai alle
porte, la civiltà, invece, era alle spalle.
Si chiama Guerra del Calcio, ma il conflitto non è stato in
campo. Si chiama Guerra del Calcio, ma questo è un ossimoro. Perché calcio e
guerra non dovrebbero stare nella stessa frase. Lo sport non dovrebbe avere
niente a che fare con la guerra, perché in campo ci si può giocare la faccia,
ma non ci si dovrebbe giocare la vita.
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