L’alba di un nuovo mondo, il sole che sorge sui paesi
africani.
La Guerra è alle spalle, le Olimpiadi di Roma sono alle porte, mentre il
pianeta si prepara agli anni 60.
Abebe Bikila, l’uomo di quelle Olimpiadi.
Ci sono immagini che rimangono nella memoria collettiva, persone che diventano,
spesso senza rendersene conto, simboli della propria generazione.
Bikila è un simbolo, la sua immagine un’icona.
Olimpiadi di Roma del 1960.
L’Africa insorta ha appena cominciato a proclamare la propria indipendenza.
Nella prima metà di Agosto sono ben 5 le nazioni africane a iniziare un
movimento di decolonizzazione.
Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Congo e Gabon.
Alcuni, come la Somalia, si dichiararono indipendenti prima, altri, come la
Nigeria, lo faranno solo in seguito.
Abebe, in quel momento, aveva già 28 anni.
Etiope, figlio di una terra che l’Italia ridusse a colonia 24 anni prima,
guardia del corpo dell’Imperatore.
Proprio da lui ottenne il permesso di partecipare ai giochi e un allenatore
svedese, Onni Niskanen.
Il 1960. Tutto stava per cambiare.
I colori si sfumavano nell’uguaglianza, un percorso lento, ma inevitabile.
L’Africa ‘nera’ non era ancora riuscita a conquistare un Oro olimpico.
‘Il ritmo nel sangue’ che fuoriusciva dai piedi.
Scalzo. Nessuna scarpa, nessun preconcetto.
Abebe sfreccia per le strade di Roma, nel corso della maratona.
Sfreccia. Parola migliore non poteva essere scelta.
2 ore, 15 minuti e 16 secondi.
Record mondiale. La storia che apre le sue porte alla prima medaglia d’Oro
africana.
Un traguardo tagliato senza scarpe, con europei e americani a inseguire.
Magro, reattivo e costante.
Il mondo lo guardava attonito: non era tra i favoriti, nessuno lo conosceva.
L’asfalto rovente sotto i piedi, il gelo dei respiri mozzati intorno.
Nelle lacrime di gioia sotto l’arco di Costantino c’era tutta la libertà di un
continente.
Un coraggio diverso, una voglia di correre fuori dal comune.
Alle Olimpiadi di 4 anni dopo, a Tokyo, era nuovamente tra gli sfavoriti. La salute
che non lo assisteva. Era stato operato a causa di un’appendicite solo sei settimane
prima. Pochi allenamenti nelle gambe, solo un grande cuore sotto il 'sol levante'.
Un lampo.
2 ore, 12 minuti e 12 secondi.
Non era scalzo, ma oltre alle scarpe aveva anche le ali. Nuovo primato
mondiale, una nuova vittoria. La capacità di soffrire e uno spirito indomabile
alla base di un vero e proprio miracolo sportivo.
La vita è una parabola in cui la fase discendente, prima o poi, arriva per
tutti.
La discesa di Abebe è stata rapida, quasi come la sua ascesa.
A Città del Messico, nel 1968, non riuscì a ripetersi, vittima dell’altitudine
e dell’età.
‘Il tempo passa per tutti, lo sai, nessuno indietro lo riporterà, neppure noi’.
'Gli Anni' passano e il tempo è un compagno di viaggio ingombrante per ognuno di noi.
Il tempo. La sfortuna.
Un incidente privò l’etiope dell’uso delle gambe, ma non ne diminuì il suo
grande cuore e la sua voglia di competere.
Le paralimpiadi del 1972 lo videro nuovamente in competizione, stavolta, però,
nel tiro con l’arco.
Una fiamma che arde sotto le ceneri della vita.
‘Gli uomini di successo incontrano la tragedia. E' stato il volere di Dio se ho
vinto le Olimpiadi, ed è stato il volere di Dio a farmi incontrare l'incidente.
Ho accettato quelle vittorie come accetto questa tragedia. Devo accettare
entrambe le circostanze come avvenimenti della vita e vivere felicemente.’
Abebe Bikila, quando la distanza dall’Africa si ridusse a 42,195 chilometri.
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