mercoledì 20 aprile 2016

Musica in Movimento: Sex Pistols - Never Mind The Bollocks

Reali padri del punk, o fasulli truffatori e costruiti fenomeni commerciali costruiti ad hoc? Come spesso accade, la verità sta forse nel mezzo. Di certo i Sex Pistols misero a soqquadro la musica rock e un certo perbenismo britannico con la loro strafottente arroganza. Sotto la guida del furbo manager Malcom McLaren, questi quattro scapestrati che sapevano suonare e cantare in modo anomalo e piuttosto grezzo, lontani anni luce dal virtuosismo progressive o alla poetica cantautoriale imperanti al tempo, contribuirono a creare uno dei più incredibili sconvolgimenti della storia del rock, nonché della storia sociale.

Il loro album del 1977, "Never Mind The Bollocks" (traducibile più o meno in "Sbattersene i coglioni"), può essere anche un buon sottofondo musicale per la nostra attività sportiva, specialmente se si cerca una buona dose di rabbia e sfrontatezza, caratteristiche di cui alle volte le gambe hanno bisogno, ingannando i pensieri più ponderati.
Si inizia con "Holidays In The Sun", che mette in mostra tutte le caratteristiche principali del gruppo, suono sporco, musica all'apparenza di semplice rock, spinta all'estremo grazie soprattutto alla voce inconfondibile, grezza, con le vocali aperte in modo spaventoso, di Johnny Rotten. 

"Bodies" continua sugli stessi stilemi, senza pause, con la chitarra tutt'altro che virtuosistica di Steve Jones, la batteria insistente di Paul Cook, e il basso di Sid Vicious, che contrariamente a quanto poi è passato nel tempo (costruendogli un alone quasi leggendario), ha preso parte alla scrittura e alla registrazione delle due sole canzoni d'apertura; nel resto dell'album a suonare il basso ci ha pensato Glen Matlock, essenziale e senza fronzoli. 

Il nichilismo per nulla velato continua imperterrito con "No Feelings", e poi le accuse senza freni di "Liar" e "God Save The Queen", con ritornelli diventati diventati dei veri e propri inni che ancora resistono al tempo. Ritmi sempre ostili e senza pause in "Problems" e "Seventeen", i soliti pochi accordi e la solita litania sbilenca di Rotten. 

Si arriva al capolavoro, quella "Anarchy In The UK" che continua tutt'oggi ad essere l'inno degli scontenti dell'imperante perbenismo e del bisogno di accomunarsi alla media sociale, grazie ad un testo cattivo, semplice, di presa rapida, ma sicura e potente, e al cantato mai tanto caratteristico come in quest'occasione. 

"Submission" in confronto al resto dell'album sembra l'unico momento di respiro, in effetti una sorta di recupero prima del finale. "Pretty Vacant" con il riff d'introduzione, seppur semplice, appare come uno dei rarissimi momenti di vero chitarrismo da poter tramandare, con Steve Jones a donare anche pochi semplici assolo. "New York" non appare da meno, prima del finale esplosivo di "EMI", con tutta la rabbia del gruppo racchiusa in questi ultimi tre infuocati minuti.

Se da un punto di vista stilistico tutto si è aperto e chiuso con quest'album, che già non mostrava eccessivo dinamismo tematico, rimane musica entrata comunque nella storia, e che per quel che ci riguarda, nell'ascoltarla come sottofondo durante lo sport, non manca di compiere il suo sporco dovere.

ARTICOLO A CURA DI:

Nessun commento:

Posta un commento