Daniele Crosta è un ex schermidore italiano della specialità del fioretto.
Nel suo palmares figurano diversi titoli a squadre, tra cui un oro agli europei di Bolzano 1999; un bronzo ai giochi olimpici di Sidney 2000, ai mondiali di Città del Capo 1997 e agli europei di Funchal 2000.
Oggi Daniele Crosta lavora come psicoterapeuta e come psicologo dello sport.
Ciao
Daniele, oggi sei uno psicologo/psicoterapeuta che si occupa anche di
psicologia sportiva. Come credi la tua esperienza di atleta di alto
livello possa agevolarti in qualità di psicologo dello sport e come
credi che gli atleti che segui possano trarne beneficio?
L'esperienza
sportiva mi ha permesso di “parlare lo stesso linguaggio” degli
atleti. Credo questo dia il vantaggio di poter comprendere situazioni
non propriamente comuni, che un atleta ti può raccontare.
Chi
non ha mai vissuto lo sport agonistico, soprattutto se ad alto
livello, farà più fatica a comprendere i vissuti di stress e le
pressioni che un atleta deve sopportare.
Questo
può essere un vantaggio, ma può anche diventare uno svantaggio. Gli
atleti che incontro sono diversi da me e nonostante possano vivere
delle esperienze che magari anche io ho già vissuto, ne daranno
un'interpretazione soggettiva, perchè le vivono in modo singolare
reagendo ad esse in modo singolare.
Credo
quindi che l'esperienza pregressa come sportivo sia un'arma a doppio
taglio. Da una parte ti aiuta, mentre dall'altra rischia di farti
vivere una sorta di pregiudizio che può condizionarti, rendendo più
difficile capire il vissuto originale dell'atleta.
La
difficoltà quindi consiste nel distaccarti dalla tua esperienza e
dal tuo vissuto?
Diventa
complicato non applicare i “tuoi schemi”, dato che un atleta ti
parla di cose che conosci. A mio avviso, non dovrebbe interessarmi
del fatto che l'atleta mi parla di cose che conosco, mentre dovrebbe
interessarmi capire come lui vive quelle cose, perchè lui potrebbe
viverle in maniera molto diversa da me. A me possono sembrare le
stesse cose, però lui potrebbe viverle in modo sostanzialmente
diverso.
Dall'altra
parte, facendo formazione a giovani psicologi che frequentano il
master in psicologia dello sport, mi sono accorto che un vantaggio
connesso all'esperienza pregressa è legato soprattutto agli sport di
squadra.
La
conoscenza di come funziona una squadra e come funziona il mondo
dello spogliatoio, ti permette di evitare alcuni errori. Aiuta a
muoverti in un contesto che non è semplice e in cui ci sono già
delle regole spesso non sono scritte.
Seguendo
delle squadre, anche durante le trasferte, mi sono accorto che la
conoscenza che avevo maturato mi ha permesso di comprendere quale
fosse mio “posto”, cosa non ovvia per chi non ha mai fatto sport.
Ci
sono a tuo avviso degli aspetti di metodo legati alla tua esperienza
sportiva che ti hanno aiutato nella tua carriera universitaria e
professionale? Posso chiederti quali sono?
Penso
di aver fatto uno sport di opposizione, non solo competitivo ma anche
di scontro. Uno sport non di squadra, ma individuale. Credo,
sportivamente, di essere cresciuto con l'abitudine di spostare sempre
avanti di una tacca l'obiettivo.
Ogni
volta che raggiungevo un obiettivo, lo spostavo avanti e credo che
questo aspetto valga anche nella mia carriera professionale, che
seppure non lunghissima, c'è. Vado avanti cercando sempre di salire
di un gradino e credo che questa cosa derivi proprio dallo sport,
perchè lo sport l'ho vissuto in questo modo. Ogni risultato era
funzionale a raggiungere un livello superiore, nel quale dover
ottenere altri risultati funzionali a raggiungere un livello ancora
più alto.
Credo
che questa sia anche un po' una fregatura perchè non si riesce mai a
godere pienamente dei successi. Quando hai ottenuto un successo volti
pagina e te ne prefiguri un altro da dover raggiungere.
Seppure
ci siano degli aspetti negativi, dall'altra parte credo questo mi
abbia permesso di crescere molto dal punto di vista professionale.
Sono una persona che non si accontenta mai, io vorrei essere sempre
più competente, capace di fare sempre nuove cose e sempre più
bravo. Probabilmente grazie a questa inclinazione sono cresciuto
molto in questi anni, però mi accorgo di parlare molto più
facilmente di quello che voglio fare o di quello che mi manca,
piuttosto di quello che so fare e che ho ottenuto.
Era
così nello sport ed è stato così anche durante la tua carriera
universitaria ed è così anche nella tua carriera professionale,
giusto?
Si,
giusto. Nello sport però è molto più facile, mentre nella carriera
professionale non lo è altrettanto. Nello sport fai una gara e hai
un responso immediato, mentre nel nostro lavoro non succede così.
Sai,
un atleta che lavora con te e vince non è un feedback attendibile,
come non lo è un atleta che va bene alle gare. Bisogna stare molto
attenti a considerare questi feedback come relativi alle proprie
capacità. Questo è un errore classico e anche abbastanza
pericoloso.
I
risultati dell'atleta non sono e non possono essere un risultato
dello psicologo e non possono nemmeno essere un metro di misura.
Questi dipendono da tante variabili e tu sei una di queste variabili.
Puoi essere d'aiuto, ma nessuno toglie che poteva succedere la stessa
cosa anche se tu fossi stato muto o non avessi fatto niente.
Invece
nello sport, ti alleni, vai in gara e vai male, ti rialleni vai in
gara e vai bene e il feedback è immediato. Hai inoltre delle
occasioni continue, se non quotidiane, di metterti alla prova e di
misurarti.
Quando
inoltre sali di livello, sali di livello e ne sei consapevole. Invece
nel mio lavoro salire di livello può voler dire tante cose diverse.
Tornando
alla tua attività sportiva, prima di salire in pedana eri solito
svolgere dei rituali o degli esercizi di rilassamento o di
concentrazione?
Usavo
tecniche di rilassamento o di visualizzazione, ma quasi mai salendo
in pedana perchè avevo il problema contrario. Avevo maggiormente
bisogno di caricarmi piuttosto che rilassarmi.
Le
tecniche di rilassamento le ho usate principalmente nelle sessioni di
allenamento mentale. Per lavorare bene su un movimento o un'azione è
richiesto uno stato di rilassamento non dico ottimale, ma almeno
buono e in quei casi mi sono servite molto queste tecniche.
Le
tecniche però che mi hanno maggiormente agevolato in gara sono
quelle che mi permettevano di recuperare un po' di lucidità nei
momenti di massima difficoltà. In quei momenti avere la capacità di
riconcentrarti su di te, sul tuo respiro, sul tuo corpo e quindi
riuscire a mettere ordine in una testa schiacciata dalla pressione e
che non riesce più a ragionare e riflettere bene, per me è stato
importate.
Considera
che il mio è uno sport in cui tra un assalto e l'altro passa poco
tempo e anche tra una stoccata e l'atra passano pochissimi secondi.
La capacità di recuperare lucidità fa quindi la differenza. In uno
sport tattico dove non contano la forza e la velocità, ma in cui
conta la capacità di fare la cosa giusta al momento giusto, facendo
delle scelte il più possibile corrette, queste tecniche diventano
cruciali.
Hai
ottenuto diverse medaglie a livello olimpico, mondiale e europeo nel
fioretto a squadre. Quali sono secondo te gli aspetti sui quali
lavorare per costruire una squadra affiata e coesa?
Per
costruire una squadra coesa e affiatata, credo sia fondamentale che
ognuno percepisca la necessità dell'altro. Devo percepire i miei
compagni necessari se voglio raggiungere il mio obiettivo.
Ho
visto squadre fortissime e affiatatissime in gara composte da persone
che si disprezzavano fuori dalla pedana, ma che si rispettavano
tantissimo sotto l'aspetto tecnico agonistico. Questi atleti non
avrebbero cambiato i loro compagni con nessuno.
Una
squadra forte non è fatta di amici, ma è fatta di persone che
sentono forte il legame rispetto alla funzionalità reciproca. Tu sei
funzionale all'altro e l'altro è funzionale a te e non puoi farne a
meno. Anzi! Ti è necessario e ti è necessario al massimo. Questo è
un elemento, secondo me molto importante.
Un
altro elemento è la fiducia nel compagno. Non parlo della fiducia in
lui come persona, ma fiducia in lui come atleta. Questo è
importante!
Mi
stai dicendo che il piano umano si distacca da quello professionale?
Non
dico questo. Dico che il piano umano non è una condizione
sufficiente per vincere. Forse può esserlo in alcuni casi o in
alcuni sport, però non credo sia una cosa necessaria.
Chiaramente
se non c'è amicizia può esserci un elemento di difficoltà, ma non
è detto che questo precluda il raggiungimento di un obiettivo.
Ho
visto squadre fortissime, tra le più forti mai viste, dove fuori
dalla pedana c'era una tensione palpabile tenuta ad un livello basso
di conflittualità unicamente per il quieto vivere. Stiamo parlando
di atlete di altissimo livello, con obiettivi di altissimo livello.
Si parla di medaglie d'oro alle olimpiadi, quindi un obiettivo in
grado di far passare tutto in secondo piano. Credo che in questi casi
l'obiettivo era talmente importante e talmente alto da compattare il
gruppo. Sicuramente non è un vantaggio essere nemici, ma l'essere
amici non sposta tanto gli equilibri quando l'obiettivo è così
chiaro e quando il tuo compagno ti serve così tanto.
Un'altra cosa molto importante per rendere una squadra coesa è la
chiara divisione dei ruoli. Ciascuno deve avere un ruolo preciso e
deve prendersi le sue responsabilità per il ruolo che ha. Se la
squadra sarà composta da 11 elementi, invece che 3, sarà più
complicato ovviamente. In ogni caso il ruolo deve essere chiaro e
deve essere chiaro anche l'obiettivo per cui tu lavori sia rispetto
il tuo ruolo personale, che rispetto al ruolo all'interno squadra.
Penso
inoltre che ci sono state squadre composte da campioni, ma che non
rendevano. Ad esempio la squadra che ci ha preceduto nelle olimpiadi
di Barcellona e di Atlanta era una squadra fatta di campionissimi. I
fiorettisti italiani di quella squadra erano tra i migliori del
mondo, però è stata una squadra che non ha mai preso una medaglia
alle olimpiadi. Non funzionava! Erano molto forti, però non
funzionava!
Ho
invece visto squadre come la Polonia dei miei tempi, fatta di buoni
schermidori, ma non eccellenti che riuscivano ad essere dei martelli.
Dei martelli! Credo che questo dipenda molto dalla chiarezza dei
ruoli all'interno di una squadra.
Parlando
di personalità, quali credi siano le componenti caratteriali più
importanti per uno sportivo che si dedica al fioretto?
Questa
è una domanda che gli schermidori si fanno sempre, ma a cui è
difficile rispondere. Sulle altre due armi è più semplice darti una
risposta, perchè capita spesso che uno sciabolatore sia estroverso e
vivace, mentre lo spadista sia introverso e riflessivo. Il
fiorettista invece è una via di mezzo.
Pensando
ai campioni olimpici che ho conosciuto e che ho avuto in squadra non
riesco a trovare dei tratti comuni, anzi. Ad esempio, Stefano Cerioni
è un esuberante sia a livello fisico, che caratteriale, con una
scherma molto aggressiva caratterizzata da molta forza fisica e da
molta energia. Alessandro Puccini era invece un introverso, poco
aggressivo, con una scherma poco legata alla forza, ma legata alla
finezza e alla tecnica. Uno che parlava solo se c'era da dire
qualcosa di importante, altrimenti preferiva stare in silenzio.
Sicuramente un introverso riflessivo.
Devo
ammettere che la nostra squadra delle olimpiadi era fatta da quattro
persone una diversa dall'altra. Non credo quindi esista un tratto di
personalità che aiuti più di altri. Credo si possa diventare buoni
schermidori partendo da qualunque punto.
Quali
invece credi siano gli aspetti caratteriali che più potrebbero
danneggiare uno sportivo che si dedica a questa specialità?
L'incapacità
di ragionare sotto pressione credo sia un elemento critico. La
scherma è uno sport in cui devi fare delle scelte e in cui devi
prenderti delle responsabilità. Devi saper ragionare in tempi molto
rapidi e di conseguenza il controllo e la gestione delle emozioni
diventa un fattore cruciale. A volte il cervello ti va “in panne”,
ti sembra di fare una cosa intelligente, quando invece fai una boiata
pazzesca.
Gli
schermitori bravi che ho conosciuto erano tutte persone che
riuscivano a rimanere lucidi anche sotto una forte carica agonistica.
Riuscivano a fare dei pensieri tipici per lo schermitore (es: “se
io faccio questo, lui cosa fa?”, “visto che è successo questo,
lui starà pensando quest'altro e posso allora fare A, B, C”) anche
se posti sotto pressione. Riuscire a fare questi pensieri sotto
pressione è fondamentale, perchè stiamo parlando di uno sport
tattico.
I
primi 30/40 atleti del ranking mondiale sono tutti più o meno sullo
stesso livello tecnico e fisico, quindi la differenza la fa la
capacità di fare le cose giuste al momento giusto. La scherma non è
uno sport di potenza e di velocità, ma è uno sport in cui la
stoccata deve partire e arrivare al momento giusto, altrimenti non
tocca. Mentalmente credo questa sia la competenza più importante.
Fisicamente
il discorso cambia. Ad esempio se sei alto 1,70 devi essere veloce e
scattante oltre ad avere una grande esplosività e una grande
reattività. Se sei alto dovrai avere invece atre caratteristiche.
A
tuo avviso nel mondo della scherma quanto credi contribuiscano, a
livello percentuale, la testa e le abilità tecniche nella
costruzione di una vittoria?
Non
è così semplice dividerlo per quantità, ma credo che a basso
livello conti molto di più la tecnica della testa, mentre ad alto
livello sia il contrario.
Un
atleta che arriva alle olimpiadi pratica scherma da almeno 15 anni,
con una costanza e una frequenza molto alta. Un atleta del genere ha
una tecnica molto buona e un fisico allenato per compiere certi
movimenti. A un livello alto però queste caratteristiche tecniche e
fisiche le hanno tutti e spesso anche di livello superiore al tuo,
quindi credo che pesi più la testa. Se non c'è la testa non vai da
nessuna parte!
Chiaramente
se partecipi a una gara di coppa del mondo, partecipi al primo
assalto ad eliminazione diretta, tu sei il numero 5 e tiri con il
numero 60 qualche differenza tecnica ci sarà. Saprai fare più cose
e meglio. Grazie a ciò potrai sopperire ad alcuni errori tattici.
Quando
invece incontri il numero 20 del mondo i livelli tecnici potrebbero
essere invertiti e può succedere che sia lui ad avere più tecnica
di te, ma riesci comunque a vincere. Questo succede perchè gli fare
quello che vuoi. Lui potrà farlo bene, ma sarà soltanto la cosa
sbagliata fatta bene!
L'ultima
domanda che vorrei chiederti è se c'è una frase o un motto che ti
piace ripetere agli atleti che segui e che credi possa bene
racchiudere il tuo pensiero rispetto alla psicologia sportiva.
No,
non c'è. Preferisco non usare slogan, perchè non credo funzionino
per tutti.
Sicuramente
ci sono delle frasi, come “fai quello che puoi, finchè puoi”,
“l'obiettivo non è vincere, ma fare il massimo”, che ripeto a
giovani talenti che non ce la fanno a fare il salto di qualità,
perchè si sentono schiacciati dalla paura di deludere. Queste però
non sono frasi fatte, non sono slogan!
Preferisco
invece concentrarmi sulle frasi che mi dicono gli atleti e che
sintetizzano l'atteggiamento giusto per loro.
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