martedì 7 marzo 2017

Verso Mexico70: la Guerra del Calcio

Calcio e bombe, di solito, le immaginiamo in bianco e nero, ambientati in una cornice europea, magari durante la Seconda Guerra Mondiale, un binomio relegato a una parte della nostra storia, come se la violenza associata allo sport, da quel momento in poi, fosse diventata solo una questione di hooligans.

Eppure calcio e bombe non sono solamente guerre mondiali, Europa e Razzismo, ma anche Centro America, guerre civili e guerre di civiltà, nonostante di civile avessero ben poco.
C’è un conflitto, denominato appunto ‘La Guerra del Calcio’, durato dal 14 Luglio al 18 Luglio 1969 tra Honduras ed El Salvador. Un conflitto tra i più sanguinosi del secondo dopo guerra, il quale ha causato 5700 morti e 50000 sfollati.
Siamo nel 1969 e, sulla strada che avrebbe dovuto condurre a Mexico 1970 (il Mondiale di Italia-Germania 4-3), Honduras ed El Salvador si stavano giocando l’accesso alla fase finale. Due nazioni ai ferri corti, due nazionali tra bombe d’odio e bombe vere. 

Andata e ritorno. Da brividi. Il calcio, come potete immaginare, non era altro che una banale scusa per prendere di mira i nemici. Si comincia in Honduras, l’8 Giugno. I Salvadoregni cercano di restare il meno possibile nel territorio nemico, ma non abbastanza da non subire insulti o manifestazioni di protesta, la sera prima e il giorno della partita. Gli spalti, durante l’incontro, sono infuocati, l’Honduras vince di misura, con un goal a pochi secondi dalla fine, e gli avversari devono fuggire.

L’animosità è alle stelle, la sconfitta viene vista come un disonore tale da portare al suicidio una giovane figlia di un generale dell’esercito. L’episodio, che adesso vedremmo come la follia di una ragazza, ai tempi fu strumentalizzato per aizzare la folla. Il popolo voleva vendetta, la nazionale honduregna, al ritorno, fu costretta a dormire sul tetto dell’Hotel per evitare di essere assaltata dal popolo.

Notti insonni all’aperto, il terrore addosso e l’omicidio dell’accompagnatore della nazionale, con la voglia di tornare a casa il più presto possibile, non aiutano a giocare a calcio. I calciatori vengono scortati allo stadio addirittura nei carrarmati. L’Honduras viene preso a pallonate per 90’, perde 3-0 e costringe le due squadre a disputare un terzo match per stabilire il vincitore. La civiltà sembrava ormai morta.

Il campo neutro dell’Estadio Azteca di Città del Messico fu lo scenario di nuovi scontri tra le tifoserie. 2-2 alla fine dei tempi regolamentari, la simbolica fine di una partita giocata da calciatori, ma pilotata dai governi. Ai supplementari, El Salvador conquistò l’accesso alla finale contro Haiti, nel caos della guerriglia. Gioia triste dei giocatori, cercando la via di fuga più breve e consapevoli che lo sport, quello vero, è un’altra cosa.

L’esito non soddisfò l’Honduras, il cui Governo ruppe definitivamente il dialogo con quello di El Salvador. La guerra era ormai alle porte, la civiltà, invece, era alle spalle.

Si chiama Guerra del Calcio, ma il conflitto non è stato in campo. Si chiama Guerra del Calcio, ma questo è un ossimoro. Perché calcio e guerra non dovrebbero stare nella stessa frase. Lo sport non dovrebbe avere niente a che fare con la guerra, perché in campo ci si può giocare la faccia, ma non ci si dovrebbe giocare la vita.  


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