‘Win or go home’. È la grafica impietosa che compare quando
sei a una sconfitta dall’eliminazione nei playoff. È la pressione che si prova
quando ogni minimo errore può essere fatale. È essere con le spalle al muro,
mentre i tifosi sono in piedi sui seggiolini. Non sono solo parole, è uno stato
d’animo.
19 Giugno 2013, a Miami siamo al sesto episodio delle Finals
NBA. Il palcoscenico è tutto delle due contendenti, i San Antonio Spurs di
Duncan, Parker e Ginobili, e i Miami Heat di James, Wade e Bosh. Due modi di
essere grandi a confronto. Il passato contro il presente. Le gambe stanche di
Tim Duncan contro l’esplosività dirompente di Lebron James. Ovest contro Est.
La resa dei conti al termine della stagione.
Nelle prime 5 partite, il lavoro dei ragazzi di Popovich era
stato perfetto. James limitato, gli Heat a rincorrere. Per arrivare al titolo
era necessaria una sola vittoria in due partite, seppure nella tana del lupo. La
missione non era impossibile.
James fa il fenomeno, ma sembra non bastare per vincere. Dopo
un grande terzo quarto, nell’ultima frazione di gioco sembra diverso. Perde
qualche pallone di troppo, gli Spurs scappano. A 28 secondo dal termine, il vantaggio
dei texani è di 5 punti. LeBron sbaglia da tre ma si ritrova libero dopo il
rimbalzo offensivo e mette la tripla del -2 (92-94) a -20”. Sulla rimessa palla
a Leonard che va in lunetta a -19”: sbaglia il primo, mette il secondo. 3 punti
di vantaggio. Tirare da tre, l’ultima speranza. Il numero 6 si carica la
squadra sulle spalle, spara da tre, ma è a salve. Bosh lotta, prende il
rimbalzo e riapre nell’angolo. Walter Ray Allen con il pallone tra le mani. La
storia pronta a cambiare. Per l’ennesima volta.
Quasi 38 anni, le ginocchia che scricchiolavano. Gli
infortuni e il peso del tempo su di loro, dopo anni da predicatore nel deserto
a Milwaukee e Seattle, prima di salire sul tetto del mondo a Boston, con
Garnett e Pierce. Una vita trascorsa sui campi da basket, una vita in movimento
per seguire il padre, un militare. Poche costanti, un disturbo ossessivo
compulsivo che sfociava in estrema precisione durante gli allenamenti, e il
pallone a spicchi. Tutto dimostrato, l’Hall of Fame sicura. Una palla in mano e
7 secondi sul cronometro.
Step back oltre la linea dei tre punti, senza guardare altro
che il canestro, tra gloria e fuori campo, con il un pallone pesante come il
mondo in mano. Allen si alza con leggerezza, lascia andare il pallone, mentre
Parker cercava disperatamente di disturbare il suo tiro. Un movimento ripetuto
migliaia di volte, un solo risultato. Un solo suono. 95-95. L’overtime, l’inerzia
che cambia. Il titolo di nuovo nelle sue mani dopo gara 7.
Candy Man, le mani bollenti, il ghiaccio nelle vene.
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