lunedì 8 febbraio 2016

SportivaMente - Vincenzo Prunelli

Vincenzo Prunelli è medico, psichiatra e psicanalista. 

Socio onorario dell'Associazione Italiana di Psicologia dello Sport e direttore responsabile de "Il Giornale Italiano di Psicologia dello Sport". 

Vincenzo Prunellha lavorato, negli anni, come psicologo dello sport presso il Torino Calcio, alla Federazione Italiana Giuoco Calcio, per le Nazionali Giovanili e alla Robe di Kappa basket. 


Autore di numerosi libri è ideatore e curatore dell'Associazione e del progetto Nuovosportgiovani, che vi suggeriamo di scoprire attraverso il collegamento.



Ti posso chiedere di spiegare il significato di psicologia sportiva a una persona non del settore?

La psicologia sportiva, per come la intendo, è un fantastico fenomeno educativo che richiede, però, alcuni cambiamenti interni alla cultura dello sport, altrimenti non si possono utilizzare a pieno le sue potenzialità.
Come potrei spiegare cos'è la psicologia dello sport? Innanzitutto direi che è strettamente legata all'età di chi fa sport e in tal senso può venir divisa in tre fasi.
Uno dei compiti principali insiti nella prima fase è fare in modo che gli allenatori capiscano quali sono i tempi di sviluppo di un bambino e quali i tempi di apprendimento, in modo tale da non commettere degli errori. Il bambino, ad esempio, non possiede il pensiero astratto, e quindi è inutile parlargli del domani, dei sacrifici o del successo nella vita. E poiché il gioco, il piacere e l’interesse sono gli stimoli fondamentali, l’istruttore preparato deve riuscire ad associare l'apprendimento al divertimento.
In tempi passati, collaborando con Sergio Vatta, un tipo eccezionale, abbiamo inventato i “Primi Calci” al Torino. Riuscivamo a insegnare calcio apprendendo anche dai bambini stessi. Se notavamo qualcosa di diverso dal solito, non per forza creativo, ma anche solo diverso, lo mostravamo agli altri bambini, che cercavano di imitarlo. E, imitandolo, facevano anche qualcosa di diverso da quello che erano soliti fare, perché da questo bambino avevano la possibilità di imparare.
Insegnavamo anche il gesto tecnico, ma a modo nostro. Per esempio, per insegnare a calciare d'esterno creavamo a terra un cerchio con una corda e il bambino, arrivando di corsa, doveva toccare la palla d'esterno facendola finire al centro. Anche il solo toccarla d'esterno insegnava il gesto tecnico e permetteva ai bambini di imparare a regolare la forza che andava impressa alla palla.
Altro aspetto importante è insegnare agli allenatori a fare divertire i bambini. Se riesci in questo compito, ti si aprono molte porte. Pensa che, al Torino, siamo riusciti a fare stare 650 bambini in due campi da calcio, senza che si disturbassero. Questo è stato possibile perché gli allenatori, tutti con una qualifica Isef, nel farli giocare s’interessavano a farli divertire.
Vedo invece la specializzazione precoce come il fumo negli occhi. Questa significa comunicare ai bambini di fare in un dato modo, ma non il loro. Il talento in questo modo viene soffocato, perché deve rinunciare alla propria soluzione: rallenta l’azione e l’iniziativa per costruirsi uno schema non suggerito dalla situazione e, di conseguenza, non può usare l’ingegno.
La seconda fase parte dai 10/12 anni, e consiste nel poter iniziare a insegnare anche con spiegazioni e trasmissione di concetti, e quindi anche senza passare attraverso il gioco. È comparsa la capacità di pensiero astratto, e si possono lasciar assumere iniziative non comandate, e quindi permettere che possano sbagliare. Questa è la fase in cui s’inizia a dare dei compiti e delle indicazioni e, in un certo modo, a specializzarli. In questa fase, se un bambino non sbaglia, è perché non tenta mai nulla di nuovo. E qui s’inserisce il discorso sull'intelligenza, che è composta di almeno tre livelli di funzioni. Il primo è l'apprendimento passivo, il secondo la critica e il terzo la creatività e l’ingegno, nel quale non si esegue solo un comando, ma delle informazioni che si hanno a disposizione si fa ciò che si ritiene più opportuno.
Il compito dello psicologo consiste quindi nel fornire nuove conoscenze per correggere errori che gli allenatori possono commettere e suggerire le soluzioni più adatte a ogni età e a ogni allievo. Per esempio, capire perché un bambino compie una determinata azione, quali potenzialità della mente impiega in certe iniziative o come correggere dei comportamenti senza punire e creare ostilità. E insegnare agli allievi a metterci del loro, affinché non eseguano in modo speculare quello che è loro detto. Se quest'ultimo punto non viene seguito, si rischia di ritrovarsi con adolescenti ribelli o solo esecutori di compiti e con adulti incompleti.
L'obiettivo, quindi, è fare in modo che il ragazzo diventi autonomo, che sia lui a decidere quello che fa. Può sembrare un rischio, ma se l’istruttore è capace di essere una figura di riferimento, il ragazzo non farà di testa sua, ma esattamente quello che si aspetta chi lo guida, senza però avere la percezione di essere stato portato per mano.
Errore, invece, da evitare è spingere il ragazzo a imitare il gesto del campione. Al bambino prima bisogna insegnare ad avere armonia col proprio corpo e solo in un secondo momento gli si può proporre di provare a fare in un dato modo. Se metti un bimbo davanti a un compito troppo difficile e, come nel caso del gesto del campione, del tutto impossibile, stai facendo la cosa più diseducativa. Nulla è più diseducativo di chiedere cose irrealizzabili. Questo discorso vale sia per i genitori e sia per gli allenatori, perché c'è una tendenza a spronare i propri figli per essere i migliori e i primi ovunque, ma se riescono a essere solo secondi che cosa accade? Sono costretti a considerarsi degli sconfitti.
Lavorare con gli adulti invece è più complicato. Se hanno un difetto, è molto difficile toglierglielo. Questo è un tentativo che ho provato a fare al Torino, l'anno dopo lo scudetto, trovando una forte resistenza. Quando una persona non abituata a provare e a imparare il nuovo è messa di fronte a una novità che mette in crisi convinzioni molto radicate, è facile che si opponga, e questo vale per i giocatori, come per gli allenatori. Specialmente con i secondi, è importante non salire mai in cattedra, lasciando che siano loro ad arrivare alla proposta che si vuole presentare. Una competenza dello psicologo, quindi, sta nell’operare in modo che si arrivi insieme alle soluzioni.
Un aspetto caratteristico che riguarda il lavoro con gli adulti sta nel fatto che si lavora anche sulla prestazione. Se si riesce a togliere un po' di tensione o rendere proficua la concentrazione è già un buon lavoro. La mia massima preferita è che la concentrazione più efficace è quando si entra in campo raccontandosi l’ultima barzelletta. Chiaramente sono stato attaccato, ma prova a riflettere su come stavi emotivamente quando hai realizzato la tua miglior partita o, addirittura, hai sostenuto il miglio esame, e capirai che non è la solita stravaganza. L'agonismo consiste nel saper far fronte alla situazione che sta capitando con prontezza, lucidità e fiducia di sapercela fare, e non è una cosa da invasati: non può capitare che più sei carico di paura di non farcela meglio giochi.
Nella mia esperienza ho visto che le strategie utilizzate per ottenere la concentrazione non sono sempre le più efficaci. Mi ricordo un portiere, che ha giocato in Nazionale, che a occhi chiusi stava provando a immaginarsi tutte le possibili parate. Gli chiesi: “Dove ha tirato”? “A destra”. “No, a sinistra”, gli risposi. A quel punto fu preso dal panico: “Non mi faccia più questi scherzi. Adesso devo ricominciare da capo”.
Ti rendi conto di quante energie sono necessarie per fare un lavoro del genere e di quanto incida sulla sicurezza? Inoltre, se non hai un feedback immediato sull'efficacia di ciò che stai facendo, non ti rassicurerai mai di poterla portare in gara. La concentrazione si ottiene in cinque minuti, ma se la cerchi in questo modo rischi di perderla e di aver paura di non trovarla quando ti serve veramente. Perché questo portiere continuava a cercarla in questo modo? Gli serviva, perché qualsiasi rituale legato alla superstizione, una volta radicato, è indispensabile per non cadere di più nella paura, come il sale buttato dietro la schiena, che diventa un amuleto di cui non si può fare a meno, pena la caduta nel panico.

In cosa consiste il lavoro di uno psicologo dello sport?

Uno psicologo dello sport, all'interno di una squadra e attraverso il lavoro con l'allenatore, deve creare le condizioni affinché i giocatori si muovano in una data direzione perché quella è migliore e più utile. In questo senso, avere delle competenze psicoterapiche è un grande vantaggio, perché significa entrare in sintonia con gli altri e lavorare insieme, in modo da portarli ad assumere le direzioni più utili senza imporle. Più semplicemente, se pure con l’aiuto di qualcuno, significa arrivare alla conoscenza percorrendo tutto il tragitto senza essere portati per mano, che è l’unico modo per non perderla. La direzione che preferisco è quella che porta alla creatività, all’iniziativa libera, alla responsabilità, all'autonomia e al sapersi arrangiare.
Va invece evitata la deriva, anche abbastanza normale, di voler lavorare con uno sportivo in ottica curativa. La psicologia dello sport non significa curare!
Discorso diverso è, invece, quello connesso all'errore. Non parlo degli errori legati al volersi esibire o al voler fare i furbi. Ci sono errori ed errori! Pensa a un errore di tipo tattico. Se un allenatore, a seguito di un errore, lancia un urlo, insulta o minaccia, il ragazzo si blocca, e finirà per ripetere unicamente ciò che sa già fare. per questo motivo i ragazzini che non sbagliano non mi piacciono.
Lo sport non è matematica. In matematica è meglio sbagliare il meno possibile, mentre nello sport l’errore può diventare una ricchezza, se porta a un processo di riflessione e discussione.

Ci può spiegare il valore evolutivo dell'errore?

L'errore è strettamente collegato allo sviluppo del talento di uno sportivo. Senza errore, far emergere il talento diventa complicato, direi quasi impossibile perché, a mio modo di vedere, è connesso all'iniziativa personale e al saper creare nuove situazioni, idee e azioni. E se cerchi il nuovo, è inevitabile sbagliare, perché si sperimentano iniziative e strumenti non ancora collaudati.
Il talento ci differenzia l'uno dall'altro, ed è attraverso l'errore che accade nell’iniziativa personale non ancora sperimentata, che lo posso scoprire e utilizzare il mio talento. in pratica, vado a utilizzare parti del mio talento che forse nemmeno io fino a quel momento conoscevo ancora.
Non è facendo eseguire compiti difficili che sviluppo il talento, ma stimolando l'iniziativa personale e concependo l'errore in ottica evolutiva. A un ragazzino non puoi far imitare il gesto tecnico di un fuoriclasse, perché ogni campione è diverso da tutti gli altri e ha anche qualità che nessuno potrà mai imitare, ed è quasi sicuro che il ragazzino non lo diventerà mai. Il rischio di una strategia simile è di comunicare a un bambino che non è all'altezza, mentre un bambino ha il diritto di sentirsi sempre capace. Chiedergli di imitare il campione significa quindi chiedergli l’impossibile, e caricarlo di un’insicurezza che gli taglierà le gambe anche in futuro.
Chiaramente non basta lasciare sbagliare un bambino. Un allenatore deve saper anche recuperare insieme al bambino l'errore commesso, e questo avviene attraverso il dialogo e il confronto. Non è l'allenatore o lo psicologo che recupera l'errore, ma è il dialogo tra bambino e adulto che permette questo passaggio. Come ho sempre consigliato agli allenatori, la cosa migliore da fare quando viene commesso un errore è lasciare che accada. Al termine dell'azione, o meglio della gara, vai poi a chiedere al bambino o al ragazzo cosa voleva fare quando l’ha commesso. E non lo fai con un atteggiamento severo o giudicante ma curioso, e con una disposizione a imparare tu stesso dai giocatori. Quanto tutto ciò accade e tu fai una domanda come questa a un giocatore, crei un processo di riflessione cui prende parte tutta la squadra.
L’allenatore potrebbe inoltre scoprire che l'intenzione del giocatore, se fosse andata a segno, sarebbe stata creativa e avrebbe creato anche un nuovo schema di gioco. Ricordo quando, confrontandomi con Trapattoni, un personaggio da favola, lui mi domandava, in modo un po’ provocatorio, cosa fare se un ragazzino tenta uno stop con il tacco. Gli risposi di lasciarlo fare e poi di suggerirgli di provare anche in altro modo. Prima però un ragazzino deve avere la possibilità di impadronirsi dell'armonia del proprio fisico e, solo dopo, puoi dirgli di cambiare.
Un altro aspetto, e non di poco conto, è che se un ragazzo ti percepisce come un modello valido, ti segue e, se passi del tempo con lui, non c’è nemmeno il bisogno di correggerlo. È lui stesso a fare ciò che ti aspetti, anche se può sbagliare perché si deve impratichire. Chiaramente devi essere sufficientemente abile da fornire al ragazzo gli elementi mancanti per poterci arrivare da solo. Questo è il succo dell'autonomia! Non parliamo certo di autorizzazione a sbagliare, ma a provare, perché dopo un paio di errori quel ragazzo non sbaglierà più.
Attraverso questo procedimento avvengono processi evolutivi significativi. Mi ricordo di aver lavorato con un giovane nella Primavera del Torino. Al tempo faceva la riserva. Lo osservavo durante le partite e confrontandomi con l'allenatore notammo che aveva delle buone idee e che era capace di usare il cervello. Decidemmo di lasciarlo provare e, come sai, ha giocato in squadre importanti ed è stato anche convocato in Nazionale.

Diversi atleti che ho avuto l'opportunità di intervistare propongono una differenziazione tra gruppo e squadra. Raccontano di esperienze in spogliatoi pieni di conflitti e incomprensioni, e di trasformazioni incredibili in campo fino a raggiungere risultati notevoli. Cosa ne pensi al riguardo?

Preferisco sostituire a “squadra” il termine “collettivo”. Il gruppo ha a che fare con lo stare insieme, mentre collettivo significa mettere insieme le mie e le tue iniziative. Quando le mie iniziative dipendono dalle tue e le tue dalle mie, creando qualcosa insieme per raggiungere un medesimo obiettivo, stiamo parlando di collettivo.
Un allenatore delle nazionali di sci mi raccontava che secondo lui si era formato un collettivo perché gli atleti erano amici. No, questo non è un collettivo, ma è solo un gruppo solidale al proprio interno. Il collettivo è un'altra cosa!

È, quindi, possibile, secondo te, che esistano differenze così marcate tra le esperienze vissute in campo e fuori?

Guarda, è come quando una coppia mi racconta che litiga tutto il giorno, ma poi, a letto insieme, tutto si sistema. Non sono d'accordo con questo discorso. Quando tu capisci l'altro, sai anche cosa proporgli in campo. Non sto dicendo che bisogna essere amici per forza, anzi! Gli allenatori che vogliono che i giocatori siano amici, appellandosi a qualche invenzione della psicologia approssimativa, sono dannosi. Sempre, ma soprattutto in certi casi, credo che la psicologia raffazzonata proposta da chi non ha idea di cosa sia, vada proprio dimenticata.
Mi ricordo, però, che quando ero al Torino i giocatori della Primavera hanno scritto un libro con 200 schemi di gioco inventati da loro. Se tu, allenatore o psicologo, li metti a lavorare anche fuori dal campo, lavoreranno insieme anche in gara, ma devi fare in modo che non ci sia una personalità che prevale senza avere caratteri da leader o una che crea zizzania. Quando sei capace di fare in modo che condividano pensieri e iniziative, il collettivo che si crea è di ben altra caratura.
Ho ancora nitido il ricordo di Osio, ex giocatore del Parma, e di Comi, oggi nella dirigenza del Torino. Quando li osservavo giocare in campo sapevo già come sarebbe finita l'azione. Il gesto di uno era una proposta per l’altro, e con pochi passaggi arrivavano in porta. Come dire che il collettivo richiede la capacità di intuire le iniziative dell'altro.

Ora mi piacerebbe chiederti nella costruzione di un successo qual è la percentuale da assegnare alla testa e quale alle gambe o al corpo. So che può sembrare una domanda banale, ma mi piacerebbe sapere cosa ne pensi...

Il corpo vale il 50% e la testa il 50%, perché sia l’uno che l’altra sono indispensabili. Se questi due aspetti vengono sommati, si raggiunge il 100%. Se metti, però, la testa al servizio delle gambe e le gambe al servizio della testa la somma fa molto di più. Di contro, se un atleta è un grande talento, ma non ha il cervello per usarlo bene, sarà sempre uno sportivo incompleto.
L'intelligenza ha un peso enorme, ma una parte non ha più peso dell'altra: entrambe pesano di più se vengono messe insieme. Chiaramente bisogna farle lavorare insieme, che vuole dire libertà di fare, e perché testa e corpo si connettano al meglio è fondamentale insegnare già ai bambini a collaborare. Non bisogna cadere nell’errore di schierarsi dalla parte del corpo o della testa pensando che la propria ipotesi sia la migliore. È necessario lavorare al meglio sulla cooperazione di entrambe verso lo stesso scopo perché, se metti due parti contro come succede in politica, dove tutti pensano di aver ragione e perdono di vista la verità. Abituare i giovani a decidere, agire e proporre insieme muove in questa direzione, e per questo motivo bisogna insegnare ai ragazzi lasciandoli fare.
Un’altra riflessione. A volte capita di sentir dire che un atleta o una squadra in una data partita, che io chiamo “magica”, hanno dato il 110%. Non è possibile dare il 110%, perché ognuno da per le possibilità di cui dispone. Al massimo si deve cercare di arrivare al 100%, anche se non ci arrivi mai, altrimenti non c'è possibilità di evoluzione.
L'allenatore deve capire che in quella partita, quel giocatore ha giocato dando quello di cui lui è capace. Da ciò consegue che l'allenatore deve lavorare non su come quel giocatore gioca di solito, ma su come ha giocato anche in una sola partita. L'allenatore deve lavorare sui livelli più alti, perché al 100% operano l'intuizione, la creatività, l'iniziativa libera, l’ingegno e la responsabilità. Questi sono i livelli che un allenatore deve andare a cercare.
Una volta, a un allenatore che in gara urlava ai ragazzini tutto ciò che dovevano fare, ho domandato come potessero far emergere il loro talento se dovevano solo eseguire e non avevano la possibilità di utilizzarlo secondo la situazione sempre mutevole che il gioco propone. “Perché si abituino subito al gioco degli adulti e non imparino gesti sbagliati che poi saranno difficili da correggere” mi disse. Gli risposi che ognuno di noi ha qualcosa che gli altri non hanno, ed è su quello che bisogna lavorare, ma non lo possiamo fare noi, perché non lo conosciamo. In altre parole, ognuno ha il proprio talento e lo deve poter esprimere, mentre non ha nessun significato credere di indovinare attribuendogli quello del fuoriclasse.

Ascoltandoti mi raffiguravo lo sportivo come diviso in tre parti: 1) il corpo/gesto; 2) la testa/intelligenza; 3) il carattere. Cosa ne pensi di questa ipotesi?

Non amo il termine carattere, lo trovo brutto.

Che termine utilizzeresti? 

Personalità. La personalità, però, non la costruisci tu, ma aiuti il bambino, e poi il ragazzo, a costruirsela. Crei delle situazioni nelle quali debba operare, pensare, decidere, agire ed essere responsabile o, meglio ancora, lasci che sia il gioco a proporre situazioni da affrontare e risolvere. E lo apprezzi per quello che sa fare e non per quello che vorresti che facesse. In questo modo permetti che lui si formi la personalità, che coincide con la sicurezza di provare, sbagliare e sapersi correggere, e la consapevolezza che sarà apprezzato anche se sbaglia.
Preferisco chiamarla personalità, perché al suo interno ci vedo anche l'intelligenza e le potenzialità della mente. Parliamo un attimo della testa. Si compone di due parti, quella destra, creativa, e quella sinistra, più pratica. Se fai lavorare insieme queste due parti, arrivi a promuovere quello che puoi ottenere da una persona, compresa l'emersione del suo talento. Qualcuno dice di lavorare sulla creatività di un giovane lasciandolo scegliere tra più possibilità, ma se gli indichi già la soluzione, potrà scoprire la risposta esatta, ma non sviluppi la sua creatività.
Intendo la persona come un insieme di stati d'animo, emozioni e razionalità. Lavorando con lui senza indirizzarlo in modo massiccio, arrivano poi l'autonomia e la responsabilità, e quando hai raggiunto questa meta, hai ottenuto tutto. Purtroppo, nello sport, con quest’obiettivo non si lavora spesso.

Mi puoi spiegare in cosa consiste il compito dell'allenatore?

Sergio Vatta, con cui ho collaborato, aveva sintetizzato il compito dell'allenatore dicendo che è chi sposta il pallino più avanti, lasciando che gli allievi lo raggiungano. La sua presenza è importante quando gli atleti incontrano una difficoltà o quando manca qualcosa per fare quello stop in avanti. In pratica, ti dà ciò che ti manca per fare da solo e percorrere tutto il cammino verso una conoscenza, ma non ti dà mai la soluzione.
Ti porto un esempio che chiarisce cosa intendo per insegnamento. Ho due figlie che hanno due anni di differenza, abituate a parlare di tutto e che sono sempre state brave a scuola. È capitato che entrambe mi chiedessero aiuto per un compito di matematica. Ebbi buon gioco a dichiararmi non capace a causa della mia formazione classica e a proporre di provare insieme. Le figlie mi proponevano diverse possibilità di procedere, e quando trovavano quella giusta, le lasciavo fare. Quando incontravano un ostacolo, lo facevo rilevare e, al massimo, ponevo una domanda che evidenziasse il motivo del dubbio, in modo che, risolvendolo, arrivassero poi da sole alla soluzione. In realtà, in qualche modo erano state guidate, ma solo per interpretare i passaggi che non conoscevano ancora, e in questo modo sentivano di esserci arrivate da sole.
Cosa ti fa imparare nella vita se non la consapevolezza di poter imparare e di sapercela fare da solo? Se vai avanti con chi ti dice sempre cosa fare, e nello sport succede spesso come fosse un addestramento, quando rimani da solo, sei fregato! Non ce la fai!
Quando vedi una partita e ti accorgi che i ragazzi ripetono sempre le stesse cose con precisione meticolosa, siamo caduti nel tipico errore. Tempo fa, un amico mi ha invitato ad assistere a una partita di bambini di nove-dieci anni. Il loro allenatore continuava a impartire ordini più che consigli, ed io vedevo quei bambini confusi. Dando continue indicazioni come puoi agire sul talento? Il talento si manifesta quando il ragazzo trova da solo la soluzione creativa. Il talento non è il gesto o l'intenzione che gli hai proposto tu, perché questa è la tua.
Questi aspetti dal mio punto di vista sono fondamentali. Dobbiamo insegnare ai bambini a imparare con le loro forze, sbagliare quando cercano il nuovo e correggere i propri errori. Anche perché, senza errori e senza capacità critica, non s’impara a correggersi e a scegliere la soluzione più adeguata alle situazioni.

Intervistando diversi atleti, ho potuto prendere consapevolezza di come il termine della carriera sia il momento più difficile e delicato. E' così anche nella tua esperienza?

Certamente. Per questo motivo, quando lavoravamo con i ragazzi della Primavera, li obbligavamo a conseguire al minimo un diploma. Gli sportivi che sono condotti per mano, invece, non imparano ad agire in autonomia e quando chiudono la loro carriera sportiva, si trovano in difficoltà.
Sarebbe importante che tu t’interfacciassi con i ragazzi come se lo sport fosse uno dei tanti aspetti della vita, non differente da tutto il resto. Questo renderà il ragazzo autonomo, e quando uscirà dal mondo dello sport, farà tranquillamente altro.
Ho avuto l'occasione di vedere grandi campioni, con più talento e classe degli altri, elemosinare la possibilità di allenare dei ragazzini di dodici anni, al termine della loro carriera sportiva. Se hai un grande talento quando vivi il tuo periodo, vai a meraviglia, ma se non sei stato abituato a tirarti su le brache da solo, dopo le cose si fanno dure.
Ho ancora forte il ricordo di un ragazzino arrivato al Toro cresciuto con genitori alcolisti. Questo ragazzo era molto in gamba, più di molti altri, un vero talento, ma nessuno l’ha aiutato a essere autonomo e responsabile. Seppure fosse forte e ingegnoso, si fece inguaiare in vicende di droga e finì per evaporare.
Giocava nella primavera del Toro e prima del derby con la Juve, con dall'altra parte un fortissimo nazionale, mi disse: “Lui fa il suo gioco, io il mio”. E lo fece benissimo. Aveva grandi doti, ma nonostante questo fu ceduto e passò in un'altra squadra sempre di serie A, perché il livello era veramente alto. Purtroppo questo ragazzo fece questa fine perché era cresciuto in un ambiente che non lo aveva aiutato a diventare responsabile. Mi sarebbe piaciuto poter lavorare più tempo con lui, ma non fu possibile. Ne ricordo un altro che si lamentava con me perché l'allenatore della prima squadra lo aveva messo fuori senza una spiegazione. Mi diceva che se solo avesse saputo la ragione avrebbe potuto correggere il suo errore.
Seppure molti giocatori, quando terminano la loro carriera, non sappiano da che parte andare, ci sono anche quelli autonomi, capaci di sistemarsi percorrendo nuove strade e professioni. Questi, magari non hanno fatto gli scienziati, ma sono usciti con successo nell’ambiente esterno, o hanno sfruttato la loro fama quando erano ancora nello sport per avviare delle attività.
Se l’obiettivo è sviluppare una persona capace di affrontare un futuro lavorativo, è necessario fargli vivere lo sport, come se anch'esso fosse un lavoro. In questo modo, diventerà una palestra di vita, e la renderà adatta ad affrontare un mondo diverso dal suo. Per questa ragione sorrido quando sento che vengono date multe a giocatori che arrivano tardi agli allenamenti o che addirittura vengono raccattati a casa! Dimmi, se tu hai una visita dal medico, o tu stesso lo sei, arrivi in ritardo o qualcuno passa a casa prenderti? No! Per questa ragione in tanti poi non sanno fare da soli.
Perché ci sono sportivi impreparati per affrontare quello che verrà dopo la loro carriera sportiva? Perdono una parte importante di vita in cui si deve imparare a risolvere i problemi. Questo vale anche nei rapporti con le ragazze. Mi ricordo frotte di ragazzine che aspettavano fuori dagli allenamenti i giocatori, pronte e disponibili per riuscire a esibirli. Io li chiamavo “cagnolini afgani”, belli ed eleganti.
Anche quando sento che i giocatori vanno a scuola, ho qualche dubbio. Ci sono scuole e scuole, e ho il dubbio che in alcune di queste vada soltanto per essere promosso alla fine dell’anno, anche se non t’impegni. Non si fa, quindi, abbastanza per rendere autonomi e responsabili i ragazzi.
Va detto che questo è anche un problema sociale, perché vedo i miei nipoti, bambini svegli che non si assumono le responsabilità che ero solito assumere io alla loro età. Io ho avuto la fortuna di crescere con un padre che, da sempre, mi ha affidato responsabilità e compiti, e quando chiedevo: ”Come si fa?”, mi rispondeva: “Guarda” o, anche, “arrangiati”. Fantastico!

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