lunedì 30 novembre 2015

Dialogo col campione: Carlo Alberto Cimenti

Carlo Alberto Cimenti è stato il primo alpinista italiano ad aver conseguito lo "Snow Leopard", l'onorificenza assegnata dalla federazione alpinista russa a chi scala le cinque cime 'over 7000' dell'ex Unione Sovietica, situate nel Pamir e nel Tien Shan.
In una tua intervista, hai sottolineato come nelle gare svolte in squadra sia importante “perdonare gli errori dei compagni”. Posso chiederti se esiste un atteggiamento che possa favorire questa capacità?

L'atteggiamento deve essere positivo. In una competizione quando l'errore non dipende da te, ma dagli altri, chiaramente ti risenti o ti arrabbi. Per superare la difficoltà del momento è, però, importante riuscire ad essere comprensivi. Rispetto a criticare assumendo un atteggiamento negativo, credo sia più produttivo aiutare ed essere positivi. Questo anche quando quell'errore inficia il risultato della gara o addirittura lo compromette.
Il trofeo Mezzalama è la gara per eccellenza in cui queste situazioni accadono. Si presentano per tutte le squadre, anche quelle che vincono. In questa gara di sci-alpinismo, in cui le squadre sono formate da tre persone, l'attimo di difficoltà, la caduta tua o del tuo compagno o la crisi, sono cose che accadono praticamente sempre. Essendo in tre le probabilità sono molto alte. Quando queste situazioni si verificano, tutti i membri della squadra devono essere forti e devono avere un atteggiamento positivo, per superare così la situazione difficile.
Ho visto molte squadre in cui gli atleti invece di aiutare un compagno lo criticano e lo accusano, demoralizzandolo ulteriormente. Quel compagno potrebbe superare l'attimo di crisi e concludere bene la gara, uscendone, ma così finisce invece per peggiorare sempre di più fino ad arrivare, in certi casi, al ritiro.

Secondo te questo atteggiamento poco critico, si costruisce fuori dalla gara o può essere limitato unicamente alla gara?

Conoscere il tuo compagno e allenarti con lui rende l'affiatamento più forte. Se, invece, ti incontri unicamente per la gara sei molto più portato a criticare, a “lasciare perdere”, senza fornire il tuo supporto. Avere affiatamento sarà quindi più complicato, salvo che tu tenga talmente tanto a quella competizione fino a superare anche questi ostacoli. Conoscendo una persona questa attitudine, a superare le avversità insieme, si sviluppa più velocemente. Non conoscendola sarà molto difficile costruirla.
Personalmente cerco sempre di pormi agli altri con un atteggiamento costruttivo e collaborativo. Questo atteggiamento, oltre ad essermi servito molto nelle gare mi è stato utile anche nella vita. La gara è una fucina di Dio, una fucina di vita. Se tu riesci a cogliere gli insegnamenti che ti propone e a metterli in pratica anche nella vita quotidiana, secondo me è una grande cosa.

C'è quindi una linea di continuità tra le gare e la vita quotidiana?

Si. Alcune capacità che ti aiutano a superare le difficoltà di gara, le puoi utilizzare anche nella vita. La tenacia, la costanza, la concentrazione, la voglia di arrivare anche soffrendo sono alcuni esempi. L'atteggiamento nella competizione come nella vita quotidiana deve essere sempre lo stesso.
Un altro aspetto fondamentale è come ti spieghi i successi o gli insuccessi ottenuti. Non sei giustificato a rinunciare perchè il tuo compagno ha sbagliato, ma devi comunque mettercela tutta per ottenere il risultato migliore. La giustificazione per me non va bene. Se dici “sono arrivato solo decimo, perchè...”, secondo me sbagli. Devi capire cosa hai sbagliato per cercare di migliorarti.
Quando arrivo secondo cerco di capire cosa ho sbagliato, in modo che la prossima gara possa arrivare primo. Fino a quando non sei arrivato primo, la spinta a migliorarsi non deve terminare. L'atteggiamento costruttivo e di esame della propria prestazione deve essere questo sia nelle gare, come nella vita.

Nella vita di tutti i giorni e nella scalata a un 8000m, le persone che hai intorno a te cambiano di “significato” o ci sono delle costanti?

Se sei in alta quota, dove l'aria è molto rarefatta e le condizioni sono più estreme, tutto cambia. I valori della vita cambiano, perchè sei in un ambiente in cui tutto è portato all'estremo. Se stai male a 7000 metri è difficile che venga l'ambulanza a prenderti o l'elicottero o che si riescano a organizzare delle operazioni di soccorso efficaci. Se ti rompi una gamba a 7000 metri devi cavartela da solo a scendere. Se ti viene un edema devi essere capace di riconoscere i sintomi e scendere da solo o iniettarti le medicine da solo. Chiaramente se non hai la fortuna di avere un medico di fianco.
In alta quota devi sapertela cavare da solo e tutti i valori sono portati all'estremo se confrontati alla vita normale. Questo aspetto ti permette di conoscere più profondamente le persone che hai al tuo fianco. Riesci a capire di chi ti puoi fidare e di chi non ti puoi fidare. Una persona non cambia, ma si estremizza.
In quelle situazioni vengono fuori i valori veri. Porto un esempio: se tu sei cattivo, la cattiveria verrà fuori e non riuscirai a mascherarla come può accadere in una situazione sociale, di vita quotidiana. Tutti gli atteggiamenti profondi e i valori profondi di una persona vengono fuori. A differenza della società, dove ti condizionano milioni di fattori, in un contesto di alta quota esce la tua indole più sincera.
L'alta quota va come a scremare tutti i fattori sociali fino a far rimanere i fattori più radicali e drastici, come lo è la sopravvivenza. La sopravvivenza incide poi notevolmente perchè fa venir fuori la vera personalità di ognuno di noi.

La situazione estrema rende quindi più leggibile l'altro?

Si, lo rende più leggibile. Chiaramente anche tu devi saperlo leggere, perchè rischi di essere offuscato dalla fatica. Comunque anche a 8000 metri, con i sensi offuscati, devi capire di chi ti puoi fidare di chi ti puoi fidare meno e di chi in quel momento ha bisogno di essere aiutato.

Se ti chiedessi cosa è per te il rischio, cosa mi risponderesti?

Il rischio, considerando la mia vita, è qualcosa che devo correre per forza. In una scalata ad un 8000 metri devi passare da alcuni tratti in cui sei sottoposto a pericoli oggettivi come la caduta di seracchi. In una scalata normale puoi valutare se il rischio è troppo elevato ed eventualmente a tornare indietro, ma se vuoi raggiungere un 8000 e hai solo quel periodo rischi di più.
Il rischio è una costante, mentre l'affrontare dei pericoli dipende dal tuo intento, dalla motivazione e dalle considerazioni che andrai a fare. Devi comprendere il rischio che vai ad affrontare e devi domandarti se vuoi affrontarlo. Quando vai su un 8000 tu rischi sempre di lasciarci le penne e sta quindi a te decidere quanto vuoi rischiare.
Oltre al rischio esiste sempre anche la paura, che è importante che ci sia. Quando passo sotto ad un seracco ho paura, perchè so che può staccarsi da un momento all'altro. Quando vai sulle Alpi e sei esposto per un'ora e mezza alla possibile caduta di un seracco, tu devi avere paura. E' la paura che ti permette di salvarti la vita. Ti fa essere più veloce in certi tratti e ti fa rinunciare nel momento giusto, prima che tu possa morire o prima che si stacchi una valanga. La paura ci deve essere, poi tu puoi dominarla.

Credi che durante la scalata ad una vetta alpina o ad un 8000 sia più importante saper aver paura o saper dominare la paura?

Credo siano importanti entrambe. Saper aver paura e saperla riconoscere è importante, ma quando ti trovi in una situazione particolarmente difficile e di pericolo la paura deve farti drizzare le orecchie, ma la devi saper controllare.
Da una parte la paura è atteggiamento cognitivo che ti fa prevedere il pericolo, ma quando sei in una situazione di pericolo in cui rischi la vita, se la paura si trasforma in terrore rischia di bloccarti facendoti assumere comportamenti che potrebbero esserti fatali. In quel momento la devi controllare, per uscire così dalla situazione di pericolo.

A livello mentale quando credi si incontrino le maggiori difficoltà nello scalare una vetta? Nella programmazione, negli allenamenti, nella prima fase della scalata, poco prima della vetta, in vetta o in discesa?

Tutti dicono che la parte più difficile di una scalata è la discesa che segue il raggiungimento della vetta. Credo però che organizzare gli allenamenti quando sei molto lontano dall'obiettivo sia molto faticoso dal punto di vista mentale.
Ora ad esempio so che in primavera, ad aprile, voglio andare in cima al Makalu e questo mi richiede di iniziare già adesso ad allenarmi. L'obiettivo è però talmente lontano, le condizioni climatiche qui sono talmente diverse, che mi è molto difficile allenarmi con già l'obiettivo in mente e con una buona concentrazione. Per far fronte a questa difficoltà mi pongo obiettivi intermedi. Decido, ad esempio, di partecipare ad una gara di 80km sulle Alpi, per allenarmi per arrivare in condizione a quell'appuntamento.
Per quanto riguarda la discesa non credo sia faticosa, mentre il rischio riguarda una possibile perdita di concentrazione. Quando hai raggiunto l'obiettivo che ti eri prefissato o se, addirittura, hai rinunciato, perdi concentrazione. Aggiungendo la stanchezza per la salita appena fatta, la discesa diventa pericolosa. Nella salita verso la cima la crisi ogni tanto capita, ma non c'è un momento preciso. Può capitarti poco prima della vetta, a metà o appena partito.

Esiste il “braccino del tennista”, la difficoltà prima della vetta?

Si, c'è sempre. Ad esempio, nell'ultima spedizione che ho fatto sul Communism peak ho trovato una giornata bellissima, con cielo stupendo e poco vento. Dall'ultimo campo in cima, però, la scalata è molto lunga e una volta arrivato sulla cresta, a circa 7400 metri, devi procedere in cresta fino a 7500.
Quando sei sul colletto, praticamente sei arrivato in cima. In quel punto sai che arriverai in cima, ma non sei ancora arrivato e ti prende un senso paura e di tensione. Questa paura da una parte è piacevole e dall'altra ti fa tenere le “orecchie dritte” fino al raggiungimento della vetta.

In alcuni filosofi, come Thoreau, il moto fisico e soprattutto lo scalare una vetta è sinonimo di mettere ordine nei pensieri e di riuscire a pensare lucidamente. Tu cosa ne pensi?

Assolutamente si! Ne sono proprio convintissimo! Per pensare bene il tuo corpo deve essere in buona salute. Credo che fare una passeggiata o del moto tutti i giorni possa essere di estremo aiuto per pensare bene. Per articolare ulteriormente questo ragionamento va detto che allenamenti costanti di più ore non solo aiutano, ma diventano una forma di meditazione. Tutti questi mezzi ti permettono di conoscere te stesso e il conoscere te stesso, ti aiuta a pensare bene. Questo vale sia nella corsa, come nell'arrampicata, nella bici o nello scalare una montagna.
Quando sei in alta quota fai 20 passi e ti fermi, fai nuovamente 20 passi e ti fermi a respirare. Fai altri 20 passi, ti fermi e respiri. Questo movimento costante ti permette di entrare in uno stato interiore, che avvia il tuo pensiero e poi il tuo pensiero procede in ragionamenti su ragionamenti. Questo processo è molto simile alla meditazione. L'accesso ad un tuo mondo, ti permette di riflettere con un più alto livello di concentrazione. Questo accade in particolar modo in allenamenti molto lunghi o durante una scalata molto impegnativa.

Credi questi pensieri siano più lucidi di quelli che puoi fare quando sei seduto sul divano o quando sei a letto la sera?

Sono più intensi! Credo siano più intensi, rispetto che lucidi e ordinati. Sei in uno stato mentale che ti permette di accogliere questo tipo di pensieri. Questo non può accadere quando sei sdraiato nel letto e sei prossimo al sonno.

Per essere un buon alpinista credo serva un giusto approccio mentale. Secondo te quali sono gli aspetti caratteriali che contraddistinguono il “buon alpinista”?

Chiaramente la capacità di leggere e dominare la paura. Credo questa sia la prima cosa. Accanto a questa dote, la testardaggine e la determinazione nel voler raggiungere un obiettivo in tutti i modi leciti.
Anche la perseveranza nel non darsi mai vinto, anche nelle delusioni. Se capita un insuccesso è importante pensare che è “oggi” che non ce l'hai fatta e devi quindi comprendere il perchè. Serve quindi la voglia di ritornare a percorrere la propria delusione, per poter migliorare il percorso svolto, portandolo fino alla cima.
Io ad esempio sono arrivato alla cima al Manaslu e già pensavo al progetto successivo che poteva essere arrivare in cima ad un'alta montagna. Quando sono arrivato in cima al Communism peak, che segnava la coronazione del progetto Snow Leopard, avevo già altri tre o quattro progetti che mi passavano per la testa. La voglia di continuare a provare nuove esperienze, senza fossilizzarsi, migliorando sempre.

Andare sempre oltre...

Si, quello serve per trovare le motivazioni. Un atleta deve essere motivato, perchè fare sempre la stessa cosa ti demotiva. Se non riesco ad arrivare in cima ad un 8000 metri la prima volta, il pensare che dovrò partire l'anno successivo per riprovare mi fa essere un po' demoralizzato. So che passerò nello stesso posto, dallo stesso punto e che mi troverò ad affrontare lo stesso passaggio e la stessa montagna.
Per me lo scalare una montagna è un modo di conoscere nuova gente, nuovi paesi e cose nuove. Tornare nello stesso paese e sulla stessa montagna per me non è bello, però se voglio raggiungere un obiettivo lo devo fare. In questo senso credo che la perseveranza sia fondamentale, perchè ti permette di raggiungere i tuoi obiettivi e di superare i tuoi limiti.
Una volta raggiunto l'obiettivo, ti si chiude anche un capitolo. Penso che ormai quella montagna è stata raggiunta e che io li non ci tornerò più, salvo che per lavoro. Cerco sempre nuovi orizzonti, per migliorare sempre.

L'alpinismo è uno sport per anime solitarie, ma è importante avere fiducia totale nelle poche persone vicine. Cosa significa per te questa fiducia?

Secondo me è uno sport solitario, perchè in certe situazioni sei solo tu e non puoi contare sul tuo compagno. Faccio un esempio relativo al mondo che conosco meglio: l'alta quota.
Oltre i 7000 metri, i 7500, fai talmente tanta fatica che finisci per essere tu e basta. Anche se di fianco a te c'è un tuo amico, procedi in modo autonomo, perchè in quell'istante ci sei solo tu. Questo è l'aspetto dell'alpinismo solitario. Oltre certe quote o oltre certe difficoltà, l'alpinismo diventa solitario, anche se sei in mezzo ad altre 10 persone.
Il tuo compagno conta invece molto nel percorso e conta molto aver fiducia nel compagno fino al punto dopo il quale dovrai procedere in modo solitario.

Dico un'assurdità se affermo che una vittoria si costruisce insieme, ma si finalizza da soli?

E' più o meno quello che penso, anche se esistono situazioni e situazioni. Se devi fare una via tecnica su roccia e ti trovi a lavorare in squadra, come può accadere ad esempio su le Grandes Jorasses, quando arrivi in due in cima, la vittoria è di entrambi, anche se non si deve parlare di vittoria in montagna, ma di successo, raggiungimento della cima o dell'obiettivo, in montagna o con la montagna non si vince. Devo però dire che nella maggior parte dei casi sono d'accordo con la tua affermazione. 

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