Tommie Smith e John Carlos sul podio di Città del Messico,
nel 1968, con il pugno alzato, avvolto in un guanto nero, i piedi scalzi e il
capo chino mentre nello stadio risuonava l’inno americano è, sicuramente, una
delle immagini più forti del XX secolo. Un’immagine di protesta, di lotta, di
giustizia. La lotta contro l’apartheid, la lotta contro un mondo che non li
voleva lì.
Tommie e John scelsero di rischiare, mentre dietro le quinte il capodelegazione USA prometteva conseguenze. “Se ne pentiranno tutta la vita”, parole pesanti per un gesto fortissimo.
Tommie e John scelsero di rischiare, mentre dietro le quinte il capodelegazione USA prometteva conseguenze. “Se ne pentiranno tutta la vita”, parole pesanti per un gesto fortissimo.
Ci sono proteste “rumorose” come quella dei due ragazzi
afroamericani, ci sono proteste “silenziose”, come quelle di Peter Norman, il
secondo classificato in quella gara storica. Peter non alzò il braccio, non si
unì fisicamente al gesto dei due. Rimase immobile, con il capo alzato e la
schiena dritta. Impassibile, ma non distaccato.
Al petto Norman aveva lo stemma del Olympic Project for
Human Rights, un urlo silente che riecheggiava nello stadio in un boato. Una
parte attiva della storia, dimenticata troppo spesso. Rivali, ma uniti dalla
stessa passione bruciante per uno sport che gli ha permesso di superare le
diversità.
Eppure l’agonismo era alle stelle in quei giorni, tra record
olimpici che duravano poche ore. Prima Norman, nelle batterie, poi Carlos e
Smith. Una successione di bocche aperte al passaggio degli atleti. Agonismo, ma
non odio. Agonismo, ma con rispetto.
La finale dei 200 doveva essere storica, e storica fu. Smith
la vinse, come da pronostico, mentre alle sue spalle Norman riuscì a superare
lo statunitense Carlos e guadagnare la medaglia d’argento.
I tre si guardano, una volta terminata. Carlos e Smith parlottano, a quanto pare un paio di guanti neri da indossare al termine della gara sul podio è andato perduto. Norman sente. Si avvicina e indica ai due il paio di guanti rimasto. “Dividetelo”. Smith si prende il destro, Carlos il sinistro. In tre a fissarsi. Smith chiede a Norman se crede in Dio, se crede nei diritti umani. Norman annuisce, vuole uno stemma anche lui. Vuole partecipare alla protesta, non solo alla cerimonia. Così Hoffman, un canottiere statunitense attivista, gli da il suo. Sta per entrare nella storia, sta per diventare una sorta di martire, consapevolmente.
I tre si guardano, una volta terminata. Carlos e Smith parlottano, a quanto pare un paio di guanti neri da indossare al termine della gara sul podio è andato perduto. Norman sente. Si avvicina e indica ai due il paio di guanti rimasto. “Dividetelo”. Smith si prende il destro, Carlos il sinistro. In tre a fissarsi. Smith chiede a Norman se crede in Dio, se crede nei diritti umani. Norman annuisce, vuole uno stemma anche lui. Vuole partecipare alla protesta, non solo alla cerimonia. Così Hoffman, un canottiere statunitense attivista, gli da il suo. Sta per entrare nella storia, sta per diventare una sorta di martire, consapevolmente.
“Non ho visto cosa
succedeva dietro di me – raccontò Norman – Ma ho capito che stava andando come
avevano programmato quando una voce nella folla iniziò a cantare l’inno
Americano, ma poi smise. Lo stadio divenne silenzioso”
Norman sapeva che protestare a favore dei diritti umani, con
uno stemma passatogli dai ‘ragazzi del black power’ non sarebbe stato visto di
buon occhio dalla federazione e dai media del suo Paese. Peter Norman era
australiano e in Australia le leggi sull’apartheid erano dure quasi quanto
quelle sudafricane.
Norman sale sul podio. Un piccoletto bianco in mezzo ai
giganti neri. Secondo, alle spalle di chi doveva essere di un altro pianeta.
Orgoglioso di se stesso. Orgoglioso di trovarsi un momento storico. Orgoglioso
di essere battuto dal più forte e da lui soltanto. Orgoglioso della sua idea.
Disgustato dalla segregazione.
I media e le federazioni non presero bene questo gesto.
Peter Norman fu messo da parte, fu boicottato in ogni modo. A Monaco 72’ non fu
convocato, nonostante si fosse qualificato in pista. L’Australia si presentò
senza velocisti, ma Peter, medaglia d’argento ai giochi precedenti, venne
tenuto fuori. Decise così di farsi da parte, lasciò l’atletica. Lasciò lo sport
per aver deciso che non si poteva stare in silenzio. Per non aver pensato solo
a correre e lasciato “la politica” ad altri. Perse tutto perché era giusto
rischiare per gli altri.
E mentre Smith e Carlos sono stati riabilitati e il tempo ha
reso loro onore, Peter non potette vedere con i suoi occhi il mondo dirgli un
semplice “grazie”. Solo 6 anni dopo la sua morte, infatti, l’Australia gli
riservò gli onori del caso.
Adesso all’Università di San Josè c’è una statua. Un podio
sul quale si ergono Smith e Carlos, ma accanto a loro manca proprio Peter
Norman. Un vuoto pieno di significato, simbolo di un eroe silenzioso di cui la
storia non si accorse. Perché Peter Norman era lì. Con il braccio basso, ma con
il cuore aperto.
Peter Norman, l’eroe silenzioso.
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