3’27” da recuperare sui fuggitivi, quasi 7’ di ritardo dalla
maglia rosa David Arroyo, discreto scalatore spagnolo primo in classifica
grazie a una fuga bidone da 40 uomini sottovalutata nella tappa abruzzese. Tra
di loro Evans, Cunego, Sastre, Scarponi e Nibali, 8 grandi giri vinti in
totale. Tutti da abbattere per ritornare sul trono.14 tappe alle spalle, lo Zoncolan sotto i suoi pedali.
Ivan Basso il 23 Maggio 2010 era sull’orlo del baratro.
Prima della controversa squalifica al termine dell’Operacion Puerto era
considerato l’erede di Lance Armstrong. Sarebbe diventato l’uomo da battere una
volta chiusa l’epopea del texano, l’indiscusso numero 1 del ciclismo italiano
(almeno per quanto riguardava le corse a tappe). Un volo da iniziare, ma
terminato subito con uno schianto sulla realtà della giustizia sportiva.
Ivan Basso era sull’orlo del baratro perché doveva dimostrare qualcosa a tutti,
in primis a se stesso. Doveva dissipare i dubbi della gente, dimostrando a
tutti di essere ancora quello di prima. Doveva dimostrare che i successi, i
traguardi e le gioie ottenute negli anni non fossero frutto di aiuti, ma tutta
farina del suo sacco. La sua carriera in un singolo Giro d’Italia. A 33 anni
difficilmente avrebbe avuto più possibilità.
Era tornato alle corse sul finire del 2008, aveva
corso un Giro d’Italia nel 2009 (quello della sfida Menchov-Di Luca) in maniera
abbastanza anonima per il suo palmares. Quarto posto, non brillante.
Ivan Basso era ai piedi dello Zoncolan con un sogno in testa e i dubbi sulle
spalle. I rivali erano fortissimi: chi prima, chi dopo, tutti quanti all’altezza
di vincere un grande Giro. Sastre aveva vinto il Tour de France nel 2008, Evans
l’avrebbe vinto l’anno dopo, Cunego aveva vinto il Giro nel 2004 e Scarponi lo
avrebbe vinto nel 2011 (squalifica di Contador n.d.a.). Accanto a se un
compagno/amico/rivale scomodo, Vincenzo Nibali. Colui che ne avrebbe raccolto l’eredità,
diventando l’uomo di punta non solo per le corse a tappe, ma per l’intero
movimento ciclistico nazionale. Un campione che sarebbe cresciuto con i suoi
consigli, ma ancora un gradino sotto nelle gerarchie.
Il giorno prima Vincenzo aveva vinto la tappa del Monte
Grappa, si era dimostrato all’altezza del capitano e il ciclismo non è la F1:
la strada è l’unica impietosa bilancia decisionale. I gradi di capitano se li
sarebbe dovuti guadagnare sul campo, non sulla carta. E Nibali andava forte,
maledettamente forte.
Ivan Basso aveva la sua ultima chance. Alle spalle il passo Duron e altre
salite, davanti il mostro. Lo Zoncolan. La salita più dura d’Europa, in grado
di obbligare diversi corridori a mettere il piede a terra. Una salita entrata
nella storia della corsa rosa, nonostante fosse stata percorsa solo in due
occasioni.
La tappa era stata percorsa ad alta velocità, la Liquigas
voleva provare a vincere la tappa, forte di avere due carte da giocare. Basso e
Nibali erano distanziati da Arroyo, ma lo spagnolo sulla carta avrebbe potuto
soffrire la durata del Giro: era un buon corridore, ma fino a quel momento
aveva ottenuto solo qualche piazzamento tra i 10. Ottimo, ma non abbastanza da
farlo stare al sicuro. Il vantaggio, però, era enorme. Bisognava staccarlo in
ogni occasione per poter ambire alla vittoria finale.
Lo Zoncolan comincia subito mostrando il suo lato peggiore e
le pendenze da capogiro. Costringe tutti a mettere in mostra la fatica. Fa
scoprire le carte e mostra la tacchetta del serbatoio sul volto. Arroyo
comincia subito ad ansimare. Tutti sembravano al limite. Tutti, o quasi.
Scarponi era pimpante, Evans aveva lo sguardo fisso sull’obiettivo e Basso
mostrava il ghigno dei bei tempi. Lo stesso del Mortirolo 2006. Lo stesso di
quando vinse e stravinse il Giro.
Ai sette chilometri dal traguardo Scarponi si alza sui
pedali e cerca l’allungo, solo Basso, Evans e Pinotti riescono a reggere il
ritmo del compianto scalatore abruzzese. L’andatura è altissima, gli altri
favoriti iniziano a disperdersi sulla strada. Vicini, a vista, ma tremendamente
lontani cronometricamente. Basso fiuta il momento, comincia ad andare in testa
alzando l’andatura ogni qualvolta sul viso degli altri facesse capolino una
ruga di fatica. A 6 chilometri dall’arrivo è Scarponi a pagare il fio alla
stanchezza. Una leggera accelerazione del varesino lo obbliga ad alzare bandiera
bianca. Evans, invece, resta attaccato con le unghie alla ruota posteriore del
rivale. 2 chilometri di agonia per l’australiano, mentre l’italiano continuava
a lanciargli sulle gambe delle impercettibili accelerazioni. Basso si volta un’ultima
volta, poi si rimette a guardare avanti. Accelera. Una rasoiata oltre il 15% di
pendenza Evans non ce la fa. Si stacca. Inizia a zigzagare. I metri aumentano
implacabili. Dopo 700 metri sono già 30 i secondi di distacco.
Ivan Basso è implacabile, sul viso il ghigno, la rivincita per la sofferenza.
La rivincita nei confronti di un mondo che non si era fatto problemi a
scaricarlo, ad additarlo, a considerarlo finito. La rivincita nei confronti di
se stesso, per dimostrare al proprio orgoglio di non essere arrivato al
capolinea. In quei 3,7 km Basso inserisce tutto. Carriera, vita e speranze.
Fino all’arrivo, quando il ghigno si spalanca per far passare l’aria nei
polmoni. Un abbraccio, un sospiro, una lacrima. Tornare se stessi, dopo anni di
dolore.
Conquistare il Paradiso, dopo l’Inferno dello Zoncolan. La redenzione di un
uomo attraverso la fatica e il dolore di una scalata.
Ivan Basso non vinse il Giro sullo Zoncolan, ma dimostrò
qualcosa di più importante. Nel cimitero delle frizioni rivinse al fato una frazione della sua anima.
Dall’inferno al paradiso in pochi chilometri. Magari non è stata un’opera in
rima, ma siamo sicuri che anche Dante Alighieri avrebbe apprezzato.
Ivan dal Basso verso l’alto: il Paradiso dopo l’Inferno.
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d’alcun riposo,
salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’i’ vidi de le cose belle
che porta ’l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
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