martedì 8 agosto 2017

Dialogo col campione: Sara Varone

Sara Varone è una Karateka e psicologa dello sport.

Sara Varone ha ottenuto numerosi titoli a livello nazionale e internazionale. Nel 2016 ha terminato l'attività agonistica e oggi insegna Karate e Krav Maga.











Ciao Sara, pratichi Karate da più di 20 anni e hai vinto titoli a livello mondiale e nazionale. Quali credi siano le caratteristiche mentali che contraddistinguono un atleta in questo settore?

Ho vissuto tutte le mie fasi di vita insieme al Karate. Pratico da quando avevo 5 anni, quindi dal 1995. In ogni momento della mia pratica mi sono accorta che ci sono aspetti mentali che contraddisguono un Karateka.
Uno di questi è la concentrazione. Il Karate è fatto da tecniche di una certa difficoltà, a livello motorio e coordinativo. Sono movimenti che non si fanno tutti i giorni. Se non sei in grado di mantenere l'attenzione, apprendere diventa molto difficile.
Altro aspetto importante è il saper tenere duro. Questa risorsa si situa a metà strada tra l'automotivazione e la resilienza. Solo se sai tenere duro sei in grado di uscire da situazioni svantaggiose. Questo vale durante il combattimento in palestra, che si chiama Dojo, sia in situazioni esterne. Il Karate, a differenza di altri sport, può essere applicato anche in situazioni di vita, vista la sua efficacia in termini di difesa personale.
Altra dote mentale fondamentale riguarda la capacità di gestire la propria emotività: in gara, allenamento e in termini di difesa personale.

Rispetto questo ultimo aspetto, ci sono emozioni che avvantaggiano la pratica del Karate e altre che la danneggiano? Magari alcune emozioni necessitano un controllo, mentre altre addirittura aiutano se non controllate...

Io non parlerei di emozioni positive e negative. Credo le emozioni vadano riconosciute e poi incanalate.
Provo a essere più chiara. A livello agonistico le gare si dividono in Kata, che significa forma, e Kumite, che significa combattimento. Io ho deciso di dedicarmi al Kata perchè ho sempre sperimentato un piacere viscerale nel praticarlo. L'allenamento di questa pratica è molto ripetitivo, perchè si concentra sul gesto tecnico. Se non ci fosse gioia,  dopo 2 ore che pratichi lo stesso gesto, abbandoneresti gli allenamenti. Se non provi gioia non puoi svolgere Kata.
Io ho iniziato a sentire parlare di Karate quando ero nella pancia di mia mamma, perchè lei è una Karateka, ed ho visto praticare Karate da quando sono nata. Da quando ho 5 anni ho anche deciso di praticarlo. Per me il Karate è gioia e questo vale sia nella pratica, che nell'insegnamento.
Un'emozione che necessita una gestione è la paura o, meglio, la sua costruzione mentale che è l'ansia. Le gare di Kata si svolgono su un quadrato di gara e 5 arbitri che valutano la prestazione dell'atleta. Vince chi svolge al meglio il gesto atletico sulla base del giudizio degli arbitri. E' facile comprendere come queste gare ti possano portare a sviluppare una buona dose d'ansia e come sia molto complicato non spostare mai il focus attentivo da te stessa, agli arbitri che ti stanno guardando.
La paura esiste anche per chi fa combattimento, seppure assuma una forma differente. Per chi è all'inizio esiste la paura di far male e di farsi male. Questa scompare negli atleti più esperti, ma diventa paura del possibile atteggiamento aggressivo o scorretto degli avversari e paura di poter essere messo in difficoltà dalle doti tecniche e atletiche degli avversari.
Un'altra importante competenza ha a che fare con l'autocontrollo, ovvero il saper incanalare lo spirito competitivo nella giusta direzione. Il primo confronto nel Karate è con la tua mente e solo in un secondo momento con l'altro.

Quando si fa combattimento si ha la consapevolezza di cosa prova il tuo avversario? E' possibile sentire la paura o la rabbia dell'avversario o la foga competitiva non permette una sintonizzazione emotiva?

Credo dipenda dall'atleta. Il mio compagno è stato campione del mondo di combattimento. Pochi giorni fa mi raccontava che in quella gara era talmente in "bolla", in "flow", da non percepire l'avversario e di non percepire interesse per lo stato emotivo dell'avversario.
Altri atleti sono più suscettibili e percepiscono in maniera più intensa cosa prova e cosa pensa l'avversario. A titolo personale, io, nel Kata, percepivo l'emotività delle avversarie quando non ero nella mia "zona" ideale.

Ascoltandoti emerge una marcata componente introspettiva. A livello sportivo questo è stato un limite o una risorsa?

La mia disposizione introspettiva nello sport è stata un limite finchè non ho maturato una buona autoconsapevolezza. Quando ho compreso come funzionavo ho potuto valorizzare il mio stile di pensiero e costruire una mentalità vincente. Credo questo spieghi l'incrocio tra la mia attività sportiva e la laurea in psicologia.
Nella mia pratica, in raduni per gare importanti, ho incontrato atleti che si presentavano senza la minima preoccupazione, altri che svenivano sul tatami per l'ansia e altri ancora, senza dubbio i più maturi, che arrivavano concentrati e focalizzati.
In queste situazioni confrontavo il mio modo di sentire con ciò che vedevo intorno a me e ho capito che qualcosa non andava. In un primo momento ci ho sofferto. Quando soffri tendi a limitarti e quando ti limiti le tue prestazioni sono danneggiate. In seguito ho preso consapevolezza del fatto che mi sentivo in ansia. Ho compreso le motivazioni che generavano ansia. Grazie a questo processo, quando sono tornata alle gare ero più forte e avevo una mentalità vicente.

Quando hai trovato la giusta chiave di lettura ti sei accorta di acquisire qualcosa in più o sei semplicemente tornata al livello precedente?

Ho acquisito qualcosa in più! La consapevolezza ha generato un senso di fiducia in me stessa. Dopo aver compreso cosa fosse l'ansia e da dove arrivasse, ho potuto tornare alle gare con una mentalità vincente che mi ha permesso di essere completamente concentrata.
Certo questo non garantisce sempre il successo, ma ho concretizzato gare molto belle.  Ad esempio nell'ultimo mondiale ho conquistato un argento invece di un oro, ma questo non è dovuto a un mio basso livello di concetrazione.

So che ti sei specilizzata in psicologia dello sport. Questa area disciplinare ti ha aiutato come atleta? In che modo?

Per spiegarti come mi ha aiutato è importante ripercorrere alcune fasi della mia pratica sportiva. Ho iniziato nel '95 quando avevo 5 anni e da sempre il mio maestro è stato mio padre. Poi da quando, come cintura bianca, ho iniziato a prendere parte a gare ho molto spesso ottenuto il primo posto. A 7 anni ho partecipato al trofeo Topolino, una competizione di livello nazionale, ed ho vinto senza ben sapere come. Io dormivo in palestra e mio padre mi svegliava 5 minuti prima di scendere sul tatami.
Nel 2000, quando avevo 10 anni, l'esame di cintura nera poteva essere sostenuto dai 13 anni in poi. Eccezionalmente, se il bambino era particolarmente bravo, potevi presentarti davanti ad una commissione di pre-esame, che valutava se c'erano le condizioni per sostenere l'esame ufficiale.
La commissione di pre-esame mi permette di presentarmi davanti ai maestri giapponesi che hanno portato il Karate in Italia. Contemporaneamente vengo chiamata nella nazionale italiana dei giovanissimi. Mio padre decide però che ero troppo giovane e che avrei potuto entrare in nazionale solo quando avrei potuto sceglierlo autonomamente.
Entro in nazionale nel 2006 e conquisto svariati titoli nazionali e mondiali, fino a quando nel 2010 mi ritiro. Non mi sentivo più a mio agio a gareggiare e inoltre dovevo sostenere un intervento alla spalla. Dal 2010 al 2013 le operazioni alla spalla sono diventate 3. In questo frangente temporale inizio un master in psicologia dello sport ed continuo ad allenarmi.
Nonostante avessi scelto di ritirarmi, ogni volta che mi recavo ad una gara sentivo la mancanza di qualcosa. Non tanto a livello di vittoria, ma più a livello personale. Nel 2013 arriva la terza operazione alla spalla. Decido allora di applicare ogni sera le tecniche di visualizzazione per perdere il meno possibile. Inizio a visualizzare a fatica, per poi migliorare progressivamente. Introduco poi anche tecniche di Self Talking.
Oltre a questi aspetti tecnici, durante il master imparo a dare un nome al mio "non star bene" in gara.
Capisco che la mia è ansia da prestazione e decido di lavorarci sopra, anche perchè in quanto psicologa dello sport ho il dovere di risolvere i miei aspetti problematici.
A febbraio 2014 torno a gareggiare. Faccio i campionati regionali e italiani e li vinco. Dal 2014 in poi vinco 2 ori e due argenti agli italiani, un argento ai campionati del mondo e un quarto posto all'europeo. Indipendentemente dai risultati posso però affermare che, dal mio ritorno alle gare,mi sono sempre emozionata, ma non ho più sofferto d'ansia.
Da quel momento ho lavorato moltissimo sull'aspetto mentale. Quando ti alleni a 16 anni puoi spingere tantissimo, mentre a 25/26 anni quando hai 3 operazioni alla spalla, altri problemi alle articolazioni e un problema ormonale non puoi più allenarti nello stesso modo. Ho investito quindi sulla testa per sopperire quello che il corpo non era più in grado di fare. Sono tornata a gareggiare con una lucida emozione. Sentivo l'emozione, ma ero perfettamente lucida.
Un elemento centrale è consistito nell'imparare a valutare me stessa in base alle sensazioni provate e non in base ai risultati, che sono poco controllabili. Nel 2017 ho deciso di chiudere la mia attività agonistica, ma con un senso di pienezza che prima mi mancava.
Il master in psicologia dello sport mi ha inoltre aiutato molto dal punto di vista dell'insegnamento. Dal 2007 insegno Karate e nei miei corsi integro anche diverse tecniche di lavoro mentale. Sono passata da lavorare con 3 bambini a 31 nel 2017, ho quindi un ritorno di efficacia di ciò che sto facendo.

Hai chiuso un cerchio.

Vero. Questo mi permette di lavorare con tranquillità anche con gli atleti, perchè so di cosa mi stanno parlando con la consapevolezza di essere stata in grado di superare le mie difficoltà. Per questa ragione so di poterli aiutare.

Un'ulteriore domanda che vorrei porti è se lo sport ti ha aiutato dal punto di vista scolastico...

Io vengo da un liceo scientifico con indirizzo sportivo, per poi passare a psicologia e un master in psicologia dello sport. Seppure lo abbia compreso a posteriori, lo sport mi ha aiutato a rgionare per obiettivi e ad organizzare spazi e tempi di vita in modo tale da poterli raggiungere.
Quando avevo 16 anni ero in nazionale e facevo la terza superiore. Quando frequentavo la quinta, l'anno della maturità, ho iniziato ad insegnare. Nonostante i molti impegni sono sempre stata capace di organizzarmi e di raggiungere quanto mi prefissavo.
La decisione di diventare una psicologa l'ho maturata in quarta superiore. Per arrivare alla meta dovevo fare l'università. Ho superato molti ostacoli durante il tragitto. Ho insistito anche a fronte delle difficoltà, sempre scegliendo l'opzione migliore. Questo mi è stato insegnato dal Karate.
Dall'altro lato, una cosa che mi spiace, è aver vissuto il percorso universitario in modo diverso dalle mie colleghe. Loro avevano la possibilità di fare vita universitaria, mentre io alle 4 dovevo recarmi in palestra e rimanere fino alle 10 di sera, per insegnare o allenarmi.
Inoltre l'avere una forma mentis legata al ragionare per obiettivi mi ha portato a considerare l'università unicamente un mezzo per diventare psicologa, un allenamento per arrivare alla meta. Non mi sono goduta a pieno il percorso. Vivevo rivolta all'obiettivo. Oggi sto cercando di recuperare, gustandomi dove sono ora e quello che faccio adesso, anche se quasi autonomamente la mia mente va avanti ai prossimi obiettivi.

C'è qualcosa che non ti ho chiesto e di cui ti piacerebbe parlarmi?

Seppure non sappia bene come spiegartelo, credo che un aspetto che contraddistingue la mia vita sportiva sia il rapporto con il mio maestro, che è anche mio padre. Un rapporto di insegnamento, ma anche famigliare.

Credo sia stato sia un limite sia una risorsa...

Bravo! Mio padre è uno dei maestri che forma gli istruttori. Per questo motivo le persone intorno a me si sono sempre aspettate molto. Finchè non acquisti una certa consapevolezza di te stessa questo aspetto è un peso Inoltre, mio padre, dato che allenava sua figlia, non scontava nulla e mi chiedeva di dare l'esempio. Quando sei una ragazzina non sempre è facile vivere con questa responsabilità. Certamente proprio grazie a ciò sono diventata più resiliente.

INTERVISTA A CURA DI:
Cesare Picco autore del libro "Stress e Performance Atletica"
Psicologo/Psicoterapeuta e psicologo dello sport

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