martedì 13 dicembre 2016

Il Fu Luciano Eriberto, due vite per tornare a sorridere

Abbiamo un solo nome e solo una vita. Vero, in parte. Vero, forse no.
C’è chi vive due volte, chi rinasce dopo un intervento, chi vede la morte in faccia e cambia vita. Di solito si cambia per andare avanti. Non sempre.
C’è chi, dopo 6 anni, non cambia vita per andare avanti, ma per tornare indietro.

E’ il 1996 quando un ventenne brasiliano, procuratasi una carta d’identità falsa, decide di cambiare il suo io, modificare nome e data di nascita per liberare il proprio ‘talento’ dai vincoli anagrafici.
E’ il 2002 quando, questo stesso ragazzo, ormai 26enne, decide di tornare se stesso, rischiando tutto per non dover più vivere nella menzogna.
Questa è la storia di Luciano Siqueira de Oliveira, diventato Eriberto Conceição da Silva, tornato se stesso.

Accostare la parola talento al brasiliano prevede uno sforzo non indifferente, ma le doti di corsa, sacrificio e la capacità di coprire la fascia destra non gli mancava. Bravo, ma non abbastanza da evitargli di essere continuamente scartato ai provini. Promettente certamente, ma troppo anziano per essere preso in considerazione dai club brasiliani, figuriamoci quelli europei. Essere vecchi a 20 anni è un trauma, quando cresci con la voglia di sfondare nel mondo del pallone, quando cresci nella povertà, dove un sogno non ti rende più forte, ma più deluso.

La disperazione porta a commettere errori, Luciano decide di diventare Eriberto e, ringiovanito di quasi 4 anni, ottiene un ingaggio dal Palmeiras, la squadra dei vari Altafini, Rivaldo e Cafu. A suon di cavalcate, il suo nome entra anche nei taccuini dei club europei.


E’ l’estate del 1998, l’Italia è ancora divisa dal caso ‘Iuliano-Ronaldo’, mentre la dirigenza del Bologna cerca disperatamente il modo di sostituire Roberto Baggio, che ha lasciato i falsinei per approdare alla corte dei nerazzurri di Gigi Simoni. Eriberto non sarebbe stato sicuramente il sostituto del ‘Divin Codino’ (questo ruolo era già stato assegnato a Giuseppe Signori, un talento da rilanciare), ma sulla fascia destra avrebbe potuto dare una grande mano con la sua velocità. 5 miliardi di lire e il brasiliano si vestì di rossoblu.

Il primo ricordo che ho di Eriberto è una fotografia dell’album Merlin. Un giocatore di 19 anni abbastanza precoce a guardarlo, con più rughe di Andrea Pirlo, che in nerazzurro aveva i suoi stessi anni.
Le due stagioni bolognesi non sono sfavillanti, ma le sue corse, in campo e fuori, attirano l’attenzione dei media. Lo apprezzano i giornali, a cui ha spesso regalato dei titoli, meno gli allenatori. Nel 2000 va in comproprietà al Chievo Verona, in serie B. Più che occasione di rilancio, sembrava la parte discendente della sua parabola. 

E invece Eriberto diventa protagonista, prima in B, poi in A. Sempre con Del Neri in panchina. Energia, velocità, precisione, assieme a Christian Manfredini forma una delle coppie d’esterni più temute in Italia. Vince a San Siro contro l’Inter, spaventa la Juventus, il Chievo Verona passa dalla sicurezza della retrocessione al sogno Champions League, dopo aver mantenuto anche la testa della classifica. Un anno eccezionale, il 2001-2002. 

Copertine, offerte. Le ‘frecce nere’, così venivano soprannominate, ricevono la chiamata milionaria della Lazio. Manfredini accetta, Eriberto, invece, comincia avere delle crisi. La trattativa non va in porto per motivi economici. E personali. Lacrime, problemi, qualcosa spinge dal profondo del suo io. Non lo fa vivere. Al termine di una partita fa di tutto per poter avere la maglia di un avversario con scritto Luciano sulle spalle, si allena male.
Qualcosa non va, se ne accorgono tutti. La tristezza che traspare dal suo volto supera le lacrime sulle guance, le sue corse sulla fascia nascondono quella voglia di scappare dalla verità, i rientri in difesa sono la motivazione a tornare se stesso. Dopo aver mentito a tutti, soprattutto davanti allo specchio.
Luis Pedrinho, il suo procuratore, lo difende. Il brasiliano confessa.
“Non mi chiamo Eriberto ma Luciano, non ho 23 anni ma 27, non posso più fingere e voglio che mio figlio, almeno lui, si chiami col suo vero nome"
Incredulità. Aveva ammesso tutto, senza essere costretto. Per liberarsi la coscienza. Sette mesi di squalifica, il rischio di essere arrestato. La vita stravolta ancora una volta. 

Eriberto torna a giocare come Luciano, arriva all’Inter, fallisce e torna al Chievo. Non era più quello di prima, ma a lui non importava più. Era chi voleva essere, era tornato il ragazzo che inseguiva i suoi sogni facendo ciò che più amava.

C’è chi si sarebbe nascosto per la vergogna, chi si sarebbe rifugiato in alcol e disperazione.
Luciano, invece, sorrideva alla vita. Ha pagato per i suoi errori, forse poco, ma sarebbe stato disposto a restituire molto di più alla giustizia, ordinaria e sportiva.
Perché nulla può dare la gioia che regala tornare a essere se stesso.
Meglio i fischi con il proprio nome sulle spalle che gli applausi verso qualcuno che neppure esiste.

Il fu Luciano Eriberto, due vite per tornare a sorridere.


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