martedì 31 gennaio 2017

Michael Jordan, quando la testa supera i limiti fisici

Kukoc e Harper, Pippen e Rodman. Phil Jackson in panchina a guardare quel pallone e la sua parabola verso il canestro. Prima in alto, come se volesse toccare il cielo, poi in basso, nell’abisso creato dalla paura di perdere. 

Pochi secondi prima aveva lasciato due mani. Non due mani qualunque. Michael Jordan aveva appena scoccato quello che doveva essere il suo ultimo tiro da giocatore di basket professionista.

Doveva esserlo, ma non lo fu. Perché quando due si amano non si lasciano mai realmente. E Jordan e il basket si amavano. Eccome se si amavano.
Un amore folle, coltivato, sempre rinnovato e rinforzato dai successi.
Quando guardi un video del 23 di Chicago giocare non puoi fare altro che notare la star sul palcoscenico. Un direttore d’orchestra, un uragano di energia, consapevolezza e, a volte, presunzione. Presunzione, mai supponenza. Jordan era già leggenda. Il suo ego pieno, ma non sazio.

La notte prima di gara 5 delle Finals 1997, sempre contro gli Utah Jazz, il 23 non dormì. Febbre, malessere. Una pizza ‘avvelenata’ e tutto quello che era stato costruito nell’arco di un’intera stagione sembrava svanire nel nulla. Sciolto come mozzarella sulla pizza.
Arrivato al campo sembrava in stato catatonico. Nascosto sotto l’asciugamano a pensare.
38 punti, il quinto anello in tasca.

12 mesi dopo, ancora lì: l’ultimo tiro. Che fosse il più forte già si sapeva, era solo questione di capire in che posizione della graduatoria andasse messo. Primo o secondo? Meglio Jordan o Chamberlein?
I dubbi c’erano ancora. La voglia di fare un ulteriore passo avanti anche.

La serie era 3-2 per Chicago, male che vada l’avrebbe potuta chiudere nella partita successiva. Giocare al piccolo trotto in attesa della partita finale, davanti al proprio pubblico. Rischiare tutto, quando di fronte hai Stockton e Malone?

‘No’. Ogni fibra muscolare del suo corpo sembrava negare quella possibilità. La testa muove il corpo, il pieno controllo di se di un atleta fuori dal comune.
Per 47 minuti e 40 secondi, Jordan ha pianificato, immaginato e progettato ogni singolo movimento. Sembrava che tutta quella partita non fosse altro che una recita con un copione già scritto.
Gli ultimi 20 secondi, la storia in movimento.
Utah con un punto di vantaggio e palla in mano. Malone sotto canestro. Jordan è un gatto. Gli strappa il pallone dalle mani. Tra le urla dei tifosi, il 23 va dall’altra parte a bassa velocità. Il suo ultimo possesso, il suo ultimo tiro.
13… 12… 11…
Il tempo che scorreva, i compagni che si spostavano. Isolamento. Uno contro uno.
Utah schiera la difesa sotto il proprio canestro per impedire la penetrazione. Come dire: ‘Vuoi il titolo? Tira da fuori’.

La calma olimpica, un palleggio di sinistra, poi di destra. Crossover. L’avversario non lo tiene, si accascia. Michael si alza, la mano lascia andare delicatamente il pallone. La retina si muove. 87-86.


Nell’urlo liberatorio, dopo la preghiera di Stockton, c’è il suggello alla leggenda. 

Ci sono momenti, quando sei stanco o non stai bene, in cui comincia una battaglia con te stesso. Devi solo scavare più profondamente possibile e scoprire quali motivazioni hai davvero, quali erano le tue ambizioni originali. È una ricerca nell'anima: è facile dire "ho dato il massimo" oppure "sono stanco o malato, ora qualcun altro deve fare anche la mia parte" e sentirsi a posto con la coscienza. Non è il mio approccio, e qualsiasi cosa accada, so di dover provvedere alla squadra con ogni più piccola goccia di energia
The Flu's Game, un modo di vivere.






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