Le mani davanti al viso, la destra vicinissima agli occhi,
aperta, come un mirino, mentre la sinistra si allontana verso il cielo, a
simulare la canna di un fucile.
Guardarsi attorno e vedere lo stadio olimpico ammutolito, i tifosi della Roma
attoniti, i visi tirati in un misto di odio e ammirazione, mentre i compagni
gli correvano incontro. Chivu, Sneijder, Van Der Vaart, Ibrahimovic, una
generazione irripetibile per l’Ajax che, in una notte d’autunno, conquistò l’Olimpico.
Era il 2002, Andy Van Der Meyde aveva 23 anni ed era considerato uno dei
talenti più puri che il calcio olandese avesse sfornato negli ultimi 20 anni.
La precisione al cross, il dribbling ubriacante, la velocità di un giovane nel
fiore dei suoi anni, così forte da non potersi non innamorare di lui.
Nella terra di Van Gogh lo idolatrano, l’Europa gli mette gli occhi addosso, l’Inter
lo compra per regalare il pezzo pregiato al suo allenatore, Hector Cuper, l’hombre
vertical argentino, che faceva del gioco sulle fasce il punto nevralgico della
sua tattica.