Vincenzo Prunelli è medico, psichiatra e psicanalista.
Socio onorario dell'Associazione Italiana di Psicologia dello Sport e direttore responsabile de "Il Giornale Italiano di Psicologia dello Sport".
Vincenzo Prunelli ha lavorato, negli anni, come psicologo dello sport presso il Torino Calcio, alla Federazione Italiana Giuoco Calcio, per le Nazionali Giovanili e alla Robe di Kappa basket.
Autore di numerosi libri è ideatore e curatore dell'Associazione e del progetto Nuovosportgiovani, che vi suggeriamo di scoprire attraverso il collegamento.
Ti
posso chiedere di spiegare il significato di psicologia sportiva a
una persona non del settore?
La
psicologia sportiva, per come la intendo, è un fantastico
fenomeno educativo che richiede, però, alcuni cambiamenti interni
alla cultura dello sport, altrimenti non si possono utilizzare a
pieno le sue potenzialità.
Come
potrei spiegare cos'è la psicologia dello sport? Innanzitutto direi
che è strettamente legata all'età di chi fa sport e in tal senso
può venir divisa in tre fasi.
Uno
dei compiti principali insiti nella prima fase è fare in modo che
gli allenatori capiscano quali sono i tempi di sviluppo di un bambino
e quali i tempi di apprendimento, in modo tale da non commettere
degli errori. Il bambino, ad esempio, non possiede il pensiero
astratto, e quindi è inutile parlargli del domani, dei sacrifici o
del successo nella vita. E poiché il gioco, il piacere e l’interesse
sono gli stimoli fondamentali, l’istruttore preparato deve riuscire
ad associare l'apprendimento al divertimento.
In
tempi passati, collaborando con Sergio Vatta, un tipo eccezionale,
abbiamo inventato i “Primi Calci” al Torino. Riuscivamo a
insegnare calcio apprendendo anche dai bambini stessi. Se notavamo
qualcosa di diverso dal solito, non per forza creativo, ma anche solo
diverso, lo mostravamo agli altri bambini, che cercavano di imitarlo.
E, imitandolo, facevano anche qualcosa di diverso da quello che erano
soliti fare, perché da questo bambino avevano la possibilità di
imparare.
Insegnavamo
anche il gesto tecnico, ma a modo nostro. Per esempio, per insegnare
a calciare d'esterno creavamo a terra un cerchio con una corda e il
bambino, arrivando di corsa, doveva toccare la palla d'esterno
facendola finire al centro. Anche il solo toccarla d'esterno
insegnava il gesto tecnico e permetteva ai bambini di imparare a
regolare la forza che andava impressa alla palla.
Altro
aspetto importante è insegnare agli allenatori a fare divertire i
bambini. Se riesci in questo compito, ti si aprono molte porte. Pensa
che, al Torino, siamo riusciti a fare stare 650 bambini in due campi
da calcio, senza che si disturbassero. Questo è stato possibile
perché gli allenatori, tutti con una qualifica Isef, nel farli
giocare s’interessavano a farli divertire.
Vedo
invece la specializzazione precoce come il fumo negli occhi. Questa
significa comunicare ai bambini di fare in un dato modo, ma non il
loro. Il talento in questo modo viene soffocato, perché deve
rinunciare alla propria soluzione: rallenta l’azione e l’iniziativa
per costruirsi uno schema non suggerito dalla situazione e, di
conseguenza, non può usare l’ingegno.
La
seconda fase parte dai 10/12 anni, e consiste nel poter iniziare a
insegnare anche con spiegazioni e trasmissione di concetti, e quindi
anche senza passare attraverso il gioco. È comparsa la capacità di
pensiero astratto, e si possono lasciar assumere iniziative non
comandate, e quindi permettere che possano sbagliare. Questa è la
fase in cui s’inizia a dare dei compiti e delle indicazioni e, in
un certo modo, a specializzarli. In questa fase, se un bambino non
sbaglia, è perché non tenta mai nulla di nuovo. E qui s’inserisce
il discorso sull'intelligenza, che è composta di almeno tre livelli
di funzioni. Il primo è l'apprendimento passivo, il secondo la
critica e il terzo la creatività e l’ingegno, nel quale non si
esegue solo un comando, ma delle informazioni che si hanno a
disposizione si fa ciò che si ritiene più opportuno.
Il
compito dello psicologo consiste quindi nel fornire nuove conoscenze
per correggere errori che gli allenatori possono commettere e
suggerire le soluzioni più adatte a ogni età e a ogni allievo. Per
esempio, capire perché un bambino compie una determinata azione,
quali potenzialità della mente impiega in certe iniziative o come
correggere dei comportamenti senza punire e creare ostilità. E
insegnare agli allievi a metterci del loro, affinché non eseguano in
modo speculare quello che è loro detto. Se quest'ultimo punto non
viene seguito, si rischia di ritrovarsi con adolescenti ribelli o
solo esecutori di compiti e con adulti incompleti.
L'obiettivo,
quindi, è fare in modo che il ragazzo diventi autonomo, che sia lui
a decidere quello che fa. Può sembrare un rischio, ma se
l’istruttore è capace di essere una figura di riferimento, il
ragazzo non farà di testa sua, ma esattamente quello che si aspetta
chi lo guida, senza però avere la percezione di essere stato portato
per mano.
Errore,
invece, da evitare è spingere il ragazzo a imitare il gesto del
campione. Al bambino prima bisogna insegnare ad avere armonia col
proprio corpo e solo in un secondo momento gli si può proporre di
provare a fare in un dato modo. Se metti un bimbo davanti a un
compito troppo difficile e, come nel caso del gesto del campione, del
tutto impossibile, stai facendo la cosa più diseducativa. Nulla è
più diseducativo di chiedere cose irrealizzabili. Questo discorso
vale sia per i genitori e sia per gli allenatori, perché c'è una
tendenza a spronare i propri figli per essere i migliori e i primi
ovunque, ma se riescono a essere solo secondi che cosa accade? Sono
costretti a considerarsi degli sconfitti.
Lavorare
con gli adulti invece è più complicato. Se hanno un difetto, è
molto difficile toglierglielo. Questo è un tentativo che ho provato
a fare al Torino, l'anno dopo lo scudetto, trovando una forte
resistenza. Quando una persona non abituata a provare e a imparare il
nuovo è messa di fronte a una novità che mette in crisi convinzioni
molto radicate, è facile che si opponga, e questo vale per i
giocatori, come per gli allenatori. Specialmente con i secondi, è
importante non salire mai in cattedra, lasciando che siano loro ad
arrivare alla proposta che si vuole presentare. Una competenza dello
psicologo, quindi, sta nell’operare in modo che si arrivi insieme
alle soluzioni.
Un
aspetto caratteristico che riguarda il lavoro con gli adulti sta nel
fatto che si lavora anche sulla prestazione. Se si riesce a togliere
un po' di tensione o rendere proficua la concentrazione è già un
buon lavoro. La mia massima preferita è che la concentrazione più
efficace è quando si entra in campo raccontandosi l’ultima
barzelletta. Chiaramente sono stato attaccato, ma prova a riflettere
su come stavi emotivamente quando hai realizzato la tua miglior
partita o, addirittura, hai sostenuto il miglio esame, e capirai che
non è la solita stravaganza. L'agonismo consiste nel saper far
fronte alla situazione che sta capitando con prontezza, lucidità e
fiducia di sapercela fare, e non è una cosa da invasati: non può
capitare che più sei carico di paura di non farcela meglio giochi.
Nella
mia esperienza ho visto che le strategie utilizzate per ottenere la
concentrazione non sono sempre le più efficaci. Mi ricordo un
portiere, che ha giocato in Nazionale, che a occhi chiusi stava
provando a immaginarsi tutte le possibili parate. Gli chiesi: “Dove
ha tirato”? “A destra”. “No, a sinistra”, gli risposi. A
quel punto fu preso dal panico: “Non mi faccia più questi scherzi.
Adesso devo ricominciare da capo”.
Ti
rendi conto di quante energie sono necessarie per fare un lavoro del
genere e di quanto incida sulla sicurezza? Inoltre, se non hai un
feedback immediato sull'efficacia di ciò che stai facendo, non ti
rassicurerai mai di poterla portare in gara. La concentrazione si
ottiene in cinque minuti, ma se la cerchi in questo modo rischi di
perderla e di aver paura di non trovarla quando ti serve veramente.
Perché questo portiere continuava a cercarla in questo modo? Gli
serviva, perché qualsiasi rituale legato alla superstizione, una
volta radicato, è indispensabile per non cadere di più nella paura,
come il sale buttato dietro la schiena, che diventa un amuleto di cui
non si può fare a meno, pena la caduta nel panico.